«Monsieur, vi preghiamo di accettarlo», disse sinceramente. «La pelliccia più bella dei lupi è stata usata per foderarlo; abbiamo pensato che vi sarà utile d’inverno, questo manto, quando andrete a caccia.»
«E anche questi, Monsieur», sopraggiunse suo padre, mostrando uno splendido paio di stivali di nappa nera foderati di pelliccia. «Per la caccia, Monsieur.»
Mi sentivo un po’ frastornato. Compivano quei gesti con le migliori intenzioni; possedevano una ricchezza che io potevo soltanto sognare, e mi rendevano omaggio perché ero l’aristocratico.
Accettai il mantello e gli stivali. Li ringraziai sentitamente.
E alle mie spalle udii mio fratello Augustin dire: «Adesso diventerà assolutamente impossibile!»
Mi sentii avvampare. Era scandaloso che parlasse così in presenza di quegli uomini; ma quando lanciai un’occhiata a Nicolas de Lenfent, scorsi sul suo volto l’espressione più affettuosa.
«Anch’io sono impossibile, Monsieur», mi bisbigliò mentre lo salutavo con un bacio. «Un giorno mi permetterete di venire a parlarvi e mi direte come li avete uccisi tutti? Solo l’impossibile può compiere l’impossibile.»
Nessuno dei mercanti mi parlava mai così. Per un momento ridiventammo ragazzi. Risi sonoramente. Suo padre restò perplesso. I miei fratelli smisero di parlottare, ma Nicolas de Lenfent continuò a sorridere con compostezza parigina.
Appena se ne furono andati, portai il mantello di velluto rosso e gli stivali di nappa nella camera di mia madre.
Leggeva come sempre, mentre si spazzolava pigramente i capelli. Nella luce debole del sole che entrava dalla finestra, vidi per la prima volta tra i suoi capelli qualche filo grigio. Le riferii ciò che mi aveva detto Nicolas de Lenfent.
«Perché è impossibile?» le chiesi. «L’ha detto con enfasi, come se significasse qualcosa.»
Mia madre rise.
«Certo, significa qualcosa», disse. «È in disgrazia.» Per un momento smise di guardare il libro e si rivolse a me. «Sai che per tutta la vita è stato educato per diventare l’imitazione di un aristocratico. Ebbene, quando ha incominciato a studiare legge a Parigi si è innamorato pazzamente del violino, immagina! A quanto pare ha sentito un virtuoso italiano, uno di quei geni di Padova, così grande che secondo la gente ha venduto l’anima al diavolo. Bene, Nicolas ha abbandonato subito tutto per prendere lezioni da Wolfgang Mozart. Si è venduto i libri. Non ha fatto altro che suonare e suonare e alla fine è stato bocciato agli esami. Vuol diventare musicista. Riesci a immaginarlo?»
«E il padre è fuori di sé.»
«Appunto. Gli ha persino fracassato lo strumento, e sai cosa significa per il nostro bravo mercante un oggetto costoso.»
Sorrisi.
«Quindi ora Nicolas non ha un violino?»
«Ce l’ha. È scappato a Clermont e si è venduto l’orologio per comprarne un altro. È davvero impossibile; e il peggio è che suona piuttosto bene.»
«Lo hai sentito?»
Mia madre sapeva riconoscere la buona musica. Era cresciuta a Napoli. Io non avevo mai sentito altro che il coro della chiesa e i suonatori alle fiere.
«L’ho sentito domenica quando sono andata a messa», disse lei. «Suonava nella stanza da letto sopra la bottega. Potevano ascoltarlo tutti, e il padre minacciava di fracassargli le mani.»
Trasalii di fronte a tanta crudeltà. Ero affascinato! Lo amavo già, credo, perché faceva ciò che tanto desiderava.
«Naturalmente non concluderà mai nulla», continuò mia madre.
«Perché?»
«È troppo vecchio. Non si può incominciare a suonare il violino a vent’anni. Ma cosa ne so? A modo suo suona in modo magico. E forse potrà vendere l’anima al diavolo.»
Risi, un po’ impacciato. Mi sembrava magia.
«Ma perché non scendi in paese e non te lo fai amico?» chiese mia madre.
«Perché diavolo dovrei farlo?» chiesi io.
«Davvero, Lestat! Ai tuoi fratelli dispiacerà. E il vecchio mercante ne sarà felice. Suo figlio e il figlio del marchese.»
«Non sono ragioni sufficienti.»
«È stato a Parigi», disse lei. Mi fissò a lungo. Poi tornò a leggere il libro e a spazzolarsi pigramente i capelli.
La guardai leggere. Non lo sopportavo. Volevo chiederle come stava, e se la tosse l’aveva tormentata quel giorno. Ma non potevo affrontare quell’argomento.
«Vai a parlargli, Lestat», mi disse, senza rivolgermi più un’occhiata.
Trascorse una settimana prima che mi decidessi a cercare Nicolas de Lenfent.
Misi il mantello di velluto rosso foderato di pelliccia e gli stivali di nappa e scesi la strada principale del villaggio, verso la locanda.
La bottega del padre di Nicolas era proprio di fronte, ma non vidi il giovane e non lo sentii.
Avevo appena il denaro sufficiente per un bicchiere di vino, e non sapevo come comportarmi quando il taverniere uscì, s’inchinò e mi mise davanti una bottiglia della sua annata migliore.
Naturalmente, in paese mi avevano sempre trattato come il figlio del signore. Ma vedevo che le cose erano cambiate a causa dei lupi; e stranamente questo mi faceva sentire ancora più solo.
Non appena versai il primo bicchiere, però, comparve Nicolas, in uno sfolgorio di colori, sulla soglia.
Era vestito meno lussuosamente dell’altra volta, grazie al cielo: ma in lui tutto irradiava ricchezza. Seta e velluto e cuoio nuovissimo.
Ma era affannato come se avesse corso, e i suoi capelli erano scomposti dal vento, gli occhi pieni d’eccitazione. S’inchinò, attese che l’invitassi a sedere e poi mi chiese:
«Cosa avete provato, Monsieur, quando avete ucciso i lupi?» Appoggiò le braccia sul tavolo e mi fissò.
«Perché non mi dite come vi siete trovato a Parigi, Monsieur?» ribattei io, e subito mi resi conto che la mia risposta doveva apparire irridente e scortese. «Scusate», dissi. «Davvero, mi piacerebbe saperlo. Andavate all’università? Studiavate con Mozart? Che cosa fa la gente a Parigi? Di che cosa parla? Che cosa pensa?»
Rise sommessamente alle mie domande. Anch’io dovetti ridere. Feci segno di portare un altro bicchiere e spinsi la bottiglia verso di lui. «Ditemi», chiesi, «a Parigi andavate a teatro? Avete visto la Comédie-Francaise?»
«Molte volte», mi rispose lui con una certa indifferenza. «Ma ascoltate; la diligenza arriverà da un momento all’altro e ci sarà molto chiasso. Concedetemi l’onore di offrirvi il pranzo in una saletta privata al piano di sopra. Mi farebbe molto piacere…»
E, prima che potessi protestare con garbo, ordinò tutto. Fummo accompagnati in una saletta un po’ rudimentale ma confortevole.
Non ero entrato quasi mai in una piccola stanza dalle pareti di legno, e mi piacque a prima vista. La tavola era apparecchiata per il pranzo, il fuoco dava veramente calore a differenza di quelli che ruggivano nel castello, e il vetro spesso della finestra era abbastanza pulito da permettermi di vedere l’azzurro cielo invernale sopra i monti coperti di neve.
«Ora vi dirò tutto ciò che desiderate sapere di Parigi», disse cortesemente Nicolas mentre attendeva che sedessi per primo. «Sì, andavo all’università.» Fece una smorfia, come se la considerasse una cosa trascurabile. «E ho studiato con Mozart, il quale mi avrebbe detto che non avevo speranze di riuscita se non avesse avuto tanto bisogno di allievi. Dunque, da dove volete che cominci? Dal lezzo della città o dal suo fracasso infernale? Dalle folle affamate che vi circondano dovunque? Dai ladri che sono pronti a tagliarvi la gola in ogni vicolo?»
Feci un gesto di diniego. Il suo sorriso era molto diverso dal tono, i suoi modi erano aperti e piacevoli.
«Un teatro parigino veramente grande…» dissi io. «Descrivetemelo… com’è?»
Rimanemmo in quella stanza, credo, per quattro ore consecutive, e non facemmo altro che bere e parlare.
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