Anne Rice - Il ladro di corpi

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È la solitudine, la “maledizione” che si è impadronita di Lestat, affascinante e incontrastato principe del cupo universo dei vampiri. Sulla dolorosa, inarrestabile onda di quella solitudine, Lestat ha accarezzato un bruciante desiderio: rinascere come mortale, liberandosi del suo corpo di “non-morto” e impadronendosi invece di un corpo “vivo”, per dimenticare la sua condizione di tenebroso viaggiatore della notte e riprovare l’ebbrezza dei sensi umani, avvertire di nuovo sulla pelle il calore del sole, vivere il giorno in tutte le sue ore, non soltanto tra il crepuscolo e l’alba. E qualcuno, quel desiderio, può renderlo realtà, soddisfacendo così anche il proprio anelito a diventare vampiro, almeno per un breve periodo: l’ammaliante Raglan James, il Ladro di Corpi, che da tempo insegue Lestat lasciando dietro di sè tracce e indizi delle sue straordinarie ed enigmatiche capacità. Il Ladro di Corpi si rivelerà ben presto più sinistro e malvagio di qualsiasi demone e trascinerà Lestat in un viaggio interminabile, da New Orleans a Barbados, da Miami alla giungla amazzonica, costringendolo altresì a riscoprire ciò che aveva dimenticato da secoli: la sofferenza e l’angoscia insite nella natura umana…

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Solo una serie di finestre era illuminata. Quando mi avvicinai, vidi che si trattava della biblioteca e che David era seduto lì, accanto a un grande fuoco scoppiettante.

Stava scrivendo molto rapidamente, con una penna stilografica, sul suo diario intimo, rilegato in pelle. Senza il minimo sospetto di essere osservato, di tanto in tanto consultava un altro libro, sempre rilegato in pelle, posto sul tavolo accanto a lui. Potei con facilità vedere che si trattava di una Bibbia cristiana, coi piccoli caratteri disposti su doppia colonna, le pagine dal taglio dorato e un nastrino per segnalibro.

Con un altro piccolo sforzo, osservai che David stava leggendo il libro della Genesi, apparentemente prendendo appunti. Accanto, c’era la sua copia del Faust. Che diamine d’interesse aveva in tutto quello?

La stanza stessa era tappezzata di libri e illuminata da una sola lampada, posta dietro le spalle di David. Era a tutti gli effetti una biblioteca tipica delle regioni settentrionali: invitante e confortevole, con un basso soffitto architravato e con grandi e comode poltrone di cuoio.

Ma ciò che la rendeva insolita erano le tracce di una vita vissuta in un altro luogo, care memorie che ricordavano quegli anni ormai trascorsi.

La testa di un leopardo maculato era appesa sopra il camino acceso, mentre l’imponente muso nero di un bufalo era fissato sul muro di destra. Un’ampia serie di statuette indù in bronzo erano distribuite su tavoli e scaffali. Piccoli tappeti indiani, preziosi come gioielli, erano distesi sul grande tappeto marrone, davanti al focolare, sulla soglia della porta e davanti alle finestre.

La pelle fiammeggiante della tigre del Bengala si allungava proprio nel mezzo della stanza, con la testa imbalsamata, gli occhi di vetro e quelle immense zanne che io avevo visto nel mio sogno in modo così vivido e orribile.

Fu a quell’ultimo trofeo che David rivolse, d’un tratto, la sua attenzione, per poi rimettersi a scrivere, distogliendone gli occhi a fatica. Cercai di leggere nella sua mente: nulla. E perché darmi tanto disturbo? Lì non c’era nemmeno un riflesso della foresta di mangrovie dove forse era stata uccisa una bestia come quella. Poi di nuovo lui si volse a guardare la tigre e, dimenticando la penna, sprofondò nei suoi pensieri.

Come sempre, provavo conforto anche soltanto a guardarlo. Nell’oscurità intravidi numerose fotografie incorniciate di David giovane, molte scattate in India davanti a un incantevole bungalow dalle ampie verande e un alto tetto. Riconobbi inoltre immagini della madre e del padre, di lui e degli animali che aveva ucciso. Tutto ciò spiegava il mio sogno?

Ignoravo la neve che cadeva, ricoprendomi i capelli, le spalle e le braccia serrate al petto. Infine mi scossi. Mancava solo un’ora all’alba.

Girai intorno alla casa, trovai una porta sul retro, con la forza del pensiero ne feci scorrere il chiavistello, quindi entrai nel caldo vestibolo, un piccolo ambiente dal soffitto basso caratterizzato da una profusione di legno vecchio imbevuto fino al midollo di lacca o olio. Appoggiai le mani al battente della porta e vidi in un lampo un grande bosco di querce irradiato dalla luce del sole. Poi mi ritrovai di nuovo immerso nell’oscurità. Da lontano mi giunse il sentore del fuoco.

Mi accorsi che David si trovava in fondo al vestibolo e mi stava facendo cenno di avvicinarmi, anche se qualcosa nel mio aspetto lo aveva turbato, molto probabilmente il fatto che fossi ricoperto di neve e da un sottile strato di ghiaccio.

Entrammo insieme nella biblioteca e mi sedetti sulla poltrona di fronte a lui. Mi lasciò solo per un momento e io rimasi a fissare il fuoco, mentre il nevischio che mi ricopriva si andava sciogliendo. Intanto pensavo al motivo per cui ero venuto lì e a come avrei potuto esprimerlo a parole. Le mie mani erano bianche come la neve.

Quando David riapparve, aveva con sé un ampio e caldo asciugamano con cui mi asciugai il viso, i capelli e le mani. Che meravigliosa sensazione!

«Grazie», dissi.

«Sembri una statua», ribatté David.

«Già, ora ho questo aspetto, non è vero? Ma non sarà sempre cosi.»

«Che cosa vuoi dire?» chiese, sedendosi di fronte a me. «Spiegami.»

«Ho intenzione di andare in un luogo deserto. Credo di aver trovato un modo per farla finita. E non è affatto una questione semplice.»

«Perché vuoi farlo?»

«Non voglio più vivere. E questo è abbastanza semplice. Non attendo con ansia la morte come fate voi, non è quello. Stanotte io…» Mi bloccai. Vidi l’anziana donna sul suo letto candido, adagiata sulla trapunta di nylon, nella vestaglia a fiori. Vidi poi quello strano uomo dai capelli scuri che mi guardava, quello che sulla spiaggia mi si era avvicinato, consegnandomi il racconto che ancora conservavo nella giacca.

Non aveva senso. Arrivi troppo tardi, chiunque tu sia.

Perché disturbarsi a spiegare?

D’un tratto mi apparve Claudia, come se si trovasse lì, ma in un’altra dimensione, aspettando che, a mia volta, mi accorgessi di lei. È meraviglioso che le nostre menti possano invocare un’immagine dalle sembianze così reali! Claudia avrebbe potuto essere proprio lì, nell’oscurità, vicino allo scrittoio di David. Lei che aveva affondato con tutta la sua forza il lungo coltello nel mio petto. «Ti seppellirò nella tua bara per sempre, padre.» Ma in quell’epoca incontravo sempre Claudia, no? Sì, di continuo, un sogno dopo l’altro.

«Non farlo», disse David.

«E ora», bisbigliai, pensando in modo vago e distante a come Marius sarebbe rimasto deluso.

David mi aveva sentito? Forse avevo parlato a voce troppo bassa. Vaghi crepitii giungevano dal fuoco, per il crollo di un fascio di sterpi o per lo sfrigolio della linfa ancora umida di un grosso ceppo. Vidi di nuovo quella fredda camera da letto nella casa della mia adolescenza e, improvvisamente, mi ritrovai a cingere uno di quei grossi, indolenti e affettuosi cani. Vedere un lupo uccidere un cane è atroce!

Sarei dovuto morire quel giorno. Nemmeno il migliore dei cacciatori dovrebbe poter uccidere un branco di lupi. E forse fu quello il vero, grande errore. L’avrei fatta finita, se davvero la morte avesse avuto un senso e se, nel superare il limite, avessi potuto cogliere l’occhio del Diavolo. «Uccisore di Lupi»… Il vampiro Magnus l’aveva detto in modo così deferente, mentre mi portava nel suo rifugio.

David era sprofondato nella poltrona, con un piede abbandonato sul parafuoco e lo sguardo fisso sulle fiamme. Era alquanto angosciato, oltre che un po’ in affanno, sebbene riuscisse a conservare una grande padronanza di sé. «Non sarà doloroso?» chiese, guardandomi.

Per un istante, non capii che cosa intendeva, poi ricordai e, ridacchiando sommessamente, dissi: «Sono venuto per salutarti, per chiederti se sei sicuro della tua decisione. Mi sembrava giusto in qualche modo dirti che sto per andarmene e che questa potrebbe essere la tua ultima occasione. Mi sembrava leale. Mi segui? O pensi che si tratti soltanto di un’altra scusa? Comunque non ha una grande importanza…»

«Come Magnus nella tua storia: creeresti il tuo erede, quindi ti daresti fuoco», mormorò lui.

«Non è solo una storia», ribattei, senza voler essere polemico e chiedendomi perché invece lo sembravo.

«Sì, forse è così, ma onestamente non lo so.»

«Perché ti vuoi uccidere?» La sua voce aveva un accento disperato.

Avevo recato a quell’uomo un grande dolore.

Mi voltai a guardare la pelle della tigre con le sue splendide strisce nere e arancio. «Era una mangiatrice di uomini, non è vero?» chiesi.

Per un momento esitò, come se non avesse compreso la domanda, poi, come scuotendosi, assentì. Gettò uno sguardo alla tigre, quindi mi guardò. «Non voglio che tu lo faccia. Rimanda… Per amor del cielo, non farlo. E poi perché proprio stanotte?»

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