Ma lei sapeva. Naturalmente. Conosceva ogni cosa, ogni pensiero, parola, azione ed era quanto gli stava dicendo. Aveva sempre saputo tutto ciò che decideva di sapere! E aveva saputo che la cosa demente al suo fianco era il passato che tentava di difendersi. E quello che avrebbe dovuto essere un momento di trionfo, era invece un momento d’orrore!
Lei rise sommessamente mentre lo guardava. Era un suono insopportabile. Avrebbe voluto farle male. Avrebbe desiderato annientarla, e fossero pure dannati tutti i suoi figli mostruosi! «È meglio che tutti noi periamo con lei!» pensò. Se avesse potuto, l’avrebbe annientata.
Gli parve di vederla annuire, come se volesse dirgli che comprendeva. Era un insulto mostruoso. Ebbene, non capiva. E tra un momento si sarebbe messo a piangere come un bambino. Era stato commesso un errore atroce, una distorsione terribile.
«Mio caro servitore», disse lei, stirando le labbra in un sorriso lievemente amaro, «non hai mai avuto il potere di fermarmi.»
«Che cosa vuoi? Che cosa intendi fare?»
«Devi perdonarmi», disse lei, oh, educatamente come lui l’aveva detto al giovane nella sala riservata del bar. «Ora devo andare.»
L’uomo sentì il rumore prima che il pavimento si muovesse con uno stridore di metallo dilaniato. Stava precipitando, lo schermo del televisore era esploso e le schegge di vetro gli trapassavano la carne come tanti pugnali minuscoli. Gridò come un mortale, questa volta per paura. Il ghiaccio s’incrinava e scricchiolava e rombava e gli precipitava addosso.
Stava cadendo in un crepaccio gigantesco, in un gelo scottante.
«Akasha!» gridò di nuovo.
Ma lei era scomparsa, e Marius continuava a precipitare. Poi il ghiaccio lo travolse, lo circondò e lo seppellì, gli frantumò le ossa delle braccia, delle gambe e del viso. Sentì il sangue scorrere sulla superficie bruciante e poi raggelarsi. Non poteva muoversi. Non poteva respirare. E la sofferenza era intensa, insopportabile. Rivide inesplicabilmente la giungla per un istante, come l’aveva vista in precedenza. La giungla calda e fetida, e qualcosa che l’attraversava. Poi sparì. E quando gridò, questa volta, lo fece per chiamare Lestat. Pericolo. Lestat, stai in guardia. Siamo tutti in pericolo.
Poi rimasero soltanto il freddo e la sofferenza. Perse i sensi. Stava giungendo un sogno, un sogno bellissimo, un sole caldo che splendeva in una radura erbosa. Sì, il sole benedetto. Il sogno s’era impadronito di lui. E le donne avevano i capelli rossi davvero incantevoli. Ma cos’era, ciò che giaceva sull’altare sotto le foglie appassite?
PARTE PRIMA
LA STRADA DEL VAMPIRO LESTAT
È una tentazione porre in un collage coerente
l’ape, la catena montuosa, l’ombra
del mio zoccolo…
è una tentazione raggiungerli, imprigionato dal logico,
immenso, mutevole filo molecolare del pensiero,
attraverso ogni sostanza…
È una tentazione
dire che vedo in tutto ciò che vedo
il punto dove l’ago
ha incominciato a inserirsi nell’arazzo… ma, ah,
tutto sembra l’intero e la parte…
sia lunga vita all’occhio e al lucido cuore.
Stan Rice da «Four Days in Another City»
Some Lamb (1975)
1.
LA LEGGENDA DELLE GEMELLE
Dillo
in ritmica
continuità.
Dettaglio per dettaglio
le creature viventi.
Dillo
come dev’essere detto, il ritmo
solido nella forma.
Donna. Broccia levate. Divoratrice d’ombra.
Stan Rice da
« Elegy»
Whiteboy (1976)
«Chiamala per me», disse l’uomo. «Dille che ho fatto sogni stranissimi che riguardavano le gemelle. Devi chiamarla!»
La figlia non voleva farlo. Lo guardò maneggiare faticosamente il libro. Le mani, adesso, gli erano nemiche: lo diceva spesso. A novantun anni stentava a stringere una matita o a girare una pagina.
«Papà», riprese lei, «probabilmente quella donna è morta.»
Tutti quelli che lui aveva conosciuto erano morti: era sopravvissuto ai colleghi, ai fratelli, alle sorelle e persino a due dei suoi figli. Da un tragico punto di vista era sopravvissuto anche alle gemelle perché ormai nessuno leggeva più il suo libro. Nessuno si curava della «leggenda delle gemelle».
«No, chiamala», disse. «Devi chiamarla. Dille che ho sognato le gemelle. Le ho vedute nel sogno.»
«E cosa può importarle, papà?»
La figlia prese il taccuino degli indirizzi e lo sfogliò lentamente. Erano tutti morti, da molto tempo. Gli uomini che avevano lavorato con suo padre in tante spedizioni, i redattori e i fotografi che avevano collaborato al suo libro. Anche i suoi nemici, quelli che avevano affermato che la sua vita era stata sprecata, che la sua ricerca non aveva approdato a nulla; anche i più volgari, che l’avevano accusato di truccare le fotografie e di mentire a proposito delle grotte, tutte cose che suo padre non aveva mai fatto.
Perché la donna che aveva finanziato le spedizioni di tanto tempo prima, la donna ricca che aveva mandato tanto denaro per tanti anni doveva essere ancora viva?
«Devi chiederle di venire! Dille che è molto importante! Devo descriverle che cosa ho visto.»
«Dirle di venire? Venire a Rio de Janeiro solamente perché un vecchio ha fatto strani sogni?» La figlia trovò la pagina: sì, c’erano il nome e il numero. E accanto la data, che risaliva appena a due anni prima.
«Sta a Bangkok, papà.» Che ore erano a Bangkok? Non ne aveva idea.
«Verrà. Lo so.»
Il vecchio chiuse gli occhi e si abbandonò nuovamente sul cuscino. Ormai era minuto, rattrappito. Ma quando riaprì gli occhi, la donna vide il padre che la guardava. Aveva la pelle incartapecorita e ingiallita, chiazze nere sul dorso delle mani sciupate e la testa calva.
Sembrava che ora ascoltasse la musica, il canto sommesso del vampiro Lestat che giungeva dalla sua camera. Avrebbe abbassato il volume, se era quello a tenere sveglio il padre. Non aveva molta simpatia per i cantanti rock americani: ma questo le piaceva abbastanza.
«Dille che le devo parlare!» disse all’improvviso il vecchio come se tornasse in sé.
«Va bene, papà, se proprio vuoi.» La donna spense la lampada accanto al letto. «Ora torna a dormire.»
«Non devi rinunciare a cercarla fino a che l’avrai trovata. Dille… le gemelle! Ho visto le gemelle.»
Ma, mentre la donna usciva, il vecchio la richiamò con uno di quei gemiti improvvisi che la spaventavano sempre. Nella luce che filtrava dal corridoio, vide che le stava additando i libri dello scaffale di fronte.
«Portamelo», disse. Si stava sforzando per sollevarsi di nuovo a sedere.
«Il libro, papà?»
«Le gemelle… le foto…»
La donna prese il vecchio volume, glielo portò e glielo mise sulle ginocchia. Gli sistemò i cuscini per farlo stare più comodo e riaccese la luce.
La faceva soffrire sentirlo così leggero mentre lo sollevava; la faceva soffrire vederlo faticare tanto per inforcare gli occhiali dalla montatura d’argento. Il vecchio prese la matita per aiutarsi a leggere, pronto a scrivere come aveva sempre fatto; ma poi la lasciò cadere. La figlia la raccolse e la rimise sul tavolo.
«Devi chiamarla!»
Lei annuì. Ma rimase dov’era, nell’eventualità che il padre la trattenesse. La musica che veniva dalla sua camera era più forte, una delle canzoni più metalliche e squillanti. Ma sembrava che il vecchio non se ne accorgesse. Gli aprì delicatamente il libro alla prima coppia di immagini a colori. Una riempiva la pagina di sinistra, l’altra quella di destra.
Conosceva bene quelle figure. Ricordava che, da bambina, era salita con il padre fino alla grotta sul monte Carmelo, dove l’aveva condotta nel buio polveroso con la lampada tenuta alta per rivelare i graffiti sulle pareti.
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