Non ricordare.
«Arnvederci», disse lei con un sorriso.
Rimase immobile sul marciapiedi deserto. E la sete, cupa e ignorata, si spense lentamente. Guardò la custodia di cartone della videocassetta.
«Una dozzina di canali», aveva detto la ragazza. «Li ho seguiti tutti.» Se era così, gli esseri affidati alle sue cure avevano già visto inevitabilmente Lestat sul grande schermo piazzato nel sacrario di fronte a loro. Molto tempo prima aveva installato l’antenna del satellite sul pendio sopra il tetto per captare le trasmissioni di tutto il mondo. Un piccolo congegno computerizzato cambiava il canale ogni ora. Per anni, avevano osservato impassibili mentre le immagini e i colori scorrevano davanti ai loro occhi senza vita. C’era stato un guizzo lievissimo quando avevano udito la voce di Lestat o avevano visto le loro immagini? O quando avevano udito i loro nomi cantati come in un inno?
Bene, presto l’avrebbe scoperto. Avrebbe mostrato loro la videocassetta. Avrebbe studiato i loro visi lucidi e immoti in cerca di qualcosa, qualunque cosa che non fosse soltanto il riflesso della luce.
«Ah, Marius, tu non disperi mai, vero? Non sei migliore di Lestat, con i tuoi sogni assurdi.»
Era mezzanotte, quando arrivò a casa.
Chiuse la porta d’acciaio sotto la neve turbinante. Rimase immobile per un momento e lasciò che l’aria calda lo avvolgesse. La tormenta che aveva attraversato gli aveva lacerato il viso, le orecchie e persino le dita guantate. Il tepore era così piacevole.
Ascoltò nel silenzio il suono familiare dei generatori giganteschi e la lieve pulsazione elettronica del televisore nel sacrario, molte decine di metri sotto di lui. Era Lestat che cantava? Sì. Senza dubbio erano le ultime, lugubri parole di un’altra canzone.
Si sfilò piano piano i guanti. Si tolse il copricapo e si passò le dita fra i capelli. Studiò il grande atrio e il salotto adiacente, cercando di scoprire se qualcuno era stato lì.
Naturalmente era quasi impossibile. Era a molti chilometri dall’ultimo avamposto del mondo moderno, in una grande distesa gelida e coperta di neve. Ma, spinto dalla forza dell’abitudine, osservava sempre tutto con attenzione. C’erano alcuni che avrebbero potuto penetrare nella fortezza, se avessero saputo dove si trovava.
Andava tutto bene. Si fermò davanti all’acquario gigantesco, la vasca grande come una stanza che confinava con la parte sud. L’aveva costruita con estrema cura, con vetro robustissimo e con l’equipaggiamento migliore. Guardò i banchi di pesci multicolori che gli passavano davanti, quindi cambiavano di colpo direzione nell’oscurità artificiale. Le colossali alghe ondeggiavano dolcemente, come una foresta colta in un ritmo ipnotico e sospinta dal soffio dolce dell’aeratore. Era uno spettacolo che non mancava mai di affascinarlo con la sua monotonia spettacolare. Gli occhi neri e tondi dei pesci gli ispiravano un brivido, e le fronde alte e agili delle alghe, con le affusolate foglie gialle, lo emozionavano vagamente: ma l’elemento principale era il movimento, il movimento costante.
Alla fine se ne distaccò, e tornò a guardare quel mondo puro, inconscio e incidentalmente bellissimo.
Sì, era tutto lì.
Era bello, trovarsi in quelle stanze calde. Non c’era nulla che non andasse nei mobili di pelle morbida sparsi sulla moquette color vino. Il camino era pieno di legna. Le pareti erano ricoperte da librerie. E c’era il grande banco delle apparecchiature elettroniche dove poteva inserire la registrazione di Lestat. Era ciò che desiderava fare: sedere accanto al fuoco e guardare i video rock in sequenza. L’arte con cui erano stati realizzati l’affascinava non meno delle canzoni, il miscuglio di vecchio e di nuovo… e il modo in cui Lestat s’era servito delle distorsioni dei media per camuffarsi perfettamente da mortale cantante rock che aspira a sembrare un dio.
Si tolse il lungo mantello grigio e lo buttò sulla poltrona. Perché l’intera faccenda gli dava un piacere così inaspettato? Tutti noi aspiriamo a bestemmiare, ad agitare i pugni contro il volto degli dèi? Forse è vero. Secoli prima, in quella che veniva chiamata «l’antica Roma», anche lui, giovane beneducato, aveva sempre riso delle buffonate dei bambini cattivi.
Sapeva che doveva andare nel sacrario prima di ogni altra cosa. Almeno per un attimo, per assicurarsi che tutto fosse come doveva essere. Per controllare la televisione, la temperatura, tutti i complessi sistemi elettrici, per mettere nel braciere altro carbone e altro incenso. Era facile mantenere un paradiso tutto per loro, adesso che era possibile far ricorso a livide luci che donavano il nutrimento del sole ad alberi e fiori che non avevano mai visto la luce naturale del cielo. Ma l’incenso… quello doveva essere fatto a mano, come sempre. E non accadeva mai che lo spargesse sulle braci senza pensare alla prima volta in cui aveva compiuto il gesto.
Era venuto il momento di prendere un panno morbido e, con rispettosa cura, togliere la polvere dai progenitori… dai loro corpi rigidi e inflessibili, dalle labbra e dagli occhi, gli occhi freddi che non battevano mai. Era passato un mese intero. Gli sembrava una vergogna.
Avete sentito la mia mancanza, miei amatissimi Akasha ed Enkil? Ah, la vecchia battuta scherzosa.
La ragione gli diceva, come sempre, che non sapevano se andava e veniva o non se ne curavano. Ma l’orgoglio gli suggeriva sempre un’altra possibilità. Il pazzo rinchiuso nella cella del manicomio non prova qualcosa per lo schiavo che gli porta l’acqua? Forse non era un paragone calzante. E senza dubbio non era generoso.
Sì, si erano mossi per Lestat, il principino viziato, questo era vero… Akasha per offrire il sangue della potenza, Enkil per vendicarsi. E Lestat poteva fare in eterno i suoi video su quell’episodio. Ma non era già stato provato una volta per tutte che in nessuno dei due era rimasto un barlume di lucidità? Senza dubbio, al massimo era una scintilla atavica che aveva balenato per un istante: era stato troppo facile ricacciarli nel silenzio e nell’immobilità, sul loro trono sterile.
Tuttavia l’episodio l’aveva amareggiato. Dopotutto non era mai stata sua intenzione trascendere le emozioni di un uomo pensante, ma piuttosto affinarle, reinventarle, goderne con una comprensione infinitamente perfettibile. E in quel momento aveva provato l’impulso di scagliarsi contro Lestat con un furore fin troppo umano.
O giovane, perché non prendi Coloro-che-devono-essere-conservati, dato che ti hanno dimostrato questo eccezionale favore? Ormai mi piacerebbe sbarazzarmi di loro. Porto addosso questo peso fin dagli albori dell’era cristiana.
Ma in verità, non era quello il suo sentimento più sottile. Né allora, né adesso. Era soltanto un’indulgenza temporanea. Amava Lestat come l’aveva amato sempre. Ogni regno ha bisogno di un principino viziato. E il silenzio del re e della regina era una benedizione non meno di una maledizione, forse. La canzone di Lestat diceva la verità in proposito. Ma chi avrebbe mai risolto il dubbio?
Oh, più tardi sarebbe sceso con la videocassetta e avrebbe osservato con i suoi occhi, naturalmente. E se vi fosse stato il minimo guizzo, il minimo cambiamento nei loro sguardi eterni…
Ma ecco che ricominci… Lestat ti fa ritornare giovane e stupido. E tendi a nutrirti dell’innocenza e dei sogni della catastrofe.
Quante volte, nel corso dei secoli, erano nate simili speranze che poi l’avevano lasciato ferito, addirittura distrutto? Anni prima aveva portato loro i filmati a colori del levar del sole, del cielo azzurro, delle piramidi egizie. Ah, quale miracolo! Davanti ai loro occhi scorrevano le acque del Nilo, inondate dal sole. Lui stesso aveva pianto per l’illusione perfetta; aveva persino temuto che il sole filmato gli facesse male, sebbene ovviamente sapesse che era impossibile. Ma il potere dell’invenzione era tale che lui poteva stare a guardare il sorgere del sole, come non l’aveva più visto dai tempi in cui era mortale.
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