Quando vide le stelle lo sentii tendersi contro di me. Il suo volto era perfettamente levigato e sereno; e se piangeva, il vento portava via le lacrime. La paura che aveva provato era svanita completamente; era smarrito mentre guardava in alto, mentre la cupola del firmamento ci avvolgeva e la luna piena brillava sulla distesa interminabile e bianca sotto di noi.
Non era necessario dirgli cosa doveva osservare, cosa doveva ricordare. Sapeva sempre queste cose. Anni prima, quando avevo operato per lui la magia tenebrosa, non avevo dovuto dirgli nulla; ne aveva assaporato da sé ogni minimo aspetto. E più tardi mi aveva rimproverato perché non lo avevo guidato: non sapeva che era sempre stato superfluo?
Ma ora andavo alla deriva, mentalmente e fisicamente: sentivo una cosa senza peso contro di me, la pura presenza di Louis, Louis che mi apparteneva ed era con me. E non era un peso.
Stavo tracciando la rotta con una piccola parte della mia mente, come lei mi aveva insegnato; e ricordavo anche tante cose; la prima volta, per esempio, che avevo visto Louis in una taverna di New Orleans. Era ubriaco e stava litigando; e io l’avevo seguito nella notte. E nell’ultimo istante, prima che me lo lasciassi sfuggire dalle mani, mentre i suoi occhi si chiudevano, aveva detto: «Ma tu chi sei?»
Avevo capito che sarei tornato per lui al tramonto, e che l’avrei trovato a costo di cercarlo in tutta la città, sebbene l’avessi abbandonato mezzo morto sul selciato della via. Dovevo averlo, dovevo. Come dovevo avere tutto ciò che desideravo, come dovevo fare tutto ciò che volevo fare.
Quello era il problema: e tutto ciò che lei mi aveva dato, la sofferenza, il potere, il terrore, non aveva cambiato nulla.
Sei chilometri da Londra.
Un’ora dopo il tramonto. Eravamo distesi insieme sull’erba, nel buio freddo sotto la quercia. C’era un po’ di luce che filtrava dalla grande casa al centro del parco, ma non molta. Le finestre erano piccole e sembravano tenerla tutta all’interno. Là dentro c’era un’atmosfera intima, invitante, con gli scaffali pieni di libri, le fiamme che guizzavano in tutti i camini e il fumo che eruttava dai comignoli nell’oscurità nebbiosa.
Ogni tanto una macchina percorreva la strada tortuosa davanti al cancello, i fari investivano la facciata regale del vecchio edifìcio e rivelavano i mascheroni e le arcate massicce sopra le finestre e i picchiotti lucidi sulle porte massicce.
Avevo sempre amato le vecchie dimore europee, grandi come paesaggi; non è sorprendente che invitino gli spiriti dei morti a ritornare.
Louis si sollevò a sedere all’improvviso, si guardò intorno e si scosse l’erba dalla giacca. Aveva dormito per ore, inevitabilmente, sul seno del vento, e nei luoghi dove avevo riposato un poco, in attesa che il mondo girasse. «Dove siamo?» sussurrò con una sfumatura d’allarme.
«La casa madre del Talamasca, nei pressi di Londra», risposi. Ero sdraiato, con la testa fra le mani. Luci nella soffitta. Luci nelle sale del piano terreno. E mi domandavo quale sistema sarebbe stato più divertente.
«Cosa facciamo qui?»
«È un’avventura, te l’ho detto.»
«Aspetta un momento. Non vorrai entrare!»
«No? Hanno il diario di Claudia nella cantina, e il quadro di Marius. Lo sai, no? L’ha raccontato Jesse.»
«Bene, cosa intendi fare? Entrare con l’effrazione e frugare nelle cantine fino a che troverai ciò che vuoi?»
Risi. «Non sarebbe molto divertente, ti pare? Mi sembra una fatica noiosa. E poi, non è il diario che voglio. Possono tenerlo. Era di Claudia. Voglio parlare con uno di loro, David Talbot, il capo. Sono gli unici mortali al mondo, sai, che credono veramente in noi.»
Una fìtta dolorosa. Ignorala. Incomincia il divertimento.
Louis era troppo turbato per rispondere, e questo era ancora più delizioso di quanto avessi sognato.
«Non puoi dire sul serio!» Si stava indignando. «Lestat, lascia in pace quella gente. Credono che Jesse sia morta. Hanno ricevuto una lettera da qualcuno della sua famiglia.»
«Sì, certo. Non li distoglierò da questa convinzione morbosa. Perché dovrei? Ma quello che venne al concerto… David Talbot, il più anziano… mi affascina. Forse voglio sapere… Ma perché dirlo? È meglio entrare e scoprirlo.»
«Lestat!»
«Louis!» esclamai, scimmiottando il suo tono. Mi alzai e l’aiutai ad alzarsi, non perché ne avesse bisogno, ma perché era lì seduto, mi guardava cupo, opponeva resistenza e cercava di capire come poteva controllarmi… ed era tutto tempo sprecato.
«Lestat, Marius s’infurierà se lo farai», disse. Il suo viso divenne più tagliente, gli occhi verdi s’incendiarono. «La regola fondamentale è…»
«Louis, lo rendi irresistibile!» dissi. Mi prese il braccio. «E Maharet? Questi erano amici di Jesse!»
«E che cosa farà? Manderà Mekare a fracassarmi la testa come fosse un uovo?»
«Sei davvero insopportabile!» disse Louis. «Non hai imparato niente?»
«Vieni con me o no?»
«Non entrerai in quella casa.»
«Vedi la finestra lassù?» Gli passai il braccio intorno alla vita. Ora non poteva staccarsi da me. «David Talbot è in quella stanza. Sta scrivendo sul suo diario da circa un’ora. È turbato; non sa cos’è successo a noi. Sa che è accaduto qualcosa, ma non è riuscito a comprendere. Ora entreremo nella camera da letto accanto passando dalla finestrella a sinistra.»
Louis tentò un’ultima protesta, ma io mi ero concentrato sulla finestra e cercavo di visualizzare una serratura. A quale altezza era? Sentii lo spasimo e poi vidi, lassù, il piccolo rettangolo di vetro che si apriva. Anche Louis lo vide; e mentre restava immobile e ammutolito, lo strinsi più forte e salii.
Un secondo più tardi eravamo nella stanza. Una cameretta elisabettiana con i pannelli scuri e bei mobili antichi, e un piccolo fuoco acceso.
Louis era indignato. Mi fìsso cupo mentre si rassettava gli indumenti con gesti svelti e furiosi. Quella stanza mi piaceva. I libri di David Talbot; il suo letto.
E David Talbot ci fissava attraverso la porta semiaperta dello studio dov’era seduto alla scrivania, nella luce di una lampada dal paralume verde. Indossava una bella giacca da casa di seta grigia, trattenuta da una cintura. Aveva una penna in mano. Era ancora una creatura della foresta che sentiva la presenza del predatore, prima dell’inevitabile tentativo di fuga.
Ah, era magnifico!
Lo studiai per un momento; capelli grigioscuri, limpidi occhi neri, volto segnato; molto espressivo e caloroso. Ed era senza dubbio intelligente. Corrispondeva alle descrizioni di Jesse e Khayman.
Entrai nello studio.
«Mi perdoni», dissi, «avrei dovuto bussare alla porta d’ingresso. Ma volevo che questo incontro restasse privato. Lei sa chi sono, naturalmente.»
Era ammutolito.
Guardai la scrivania. I nostri dossier con vari nomi ben noti: «Teatro dei Vampiri» e «Armand» e «Benjamin, il Diavolo». E «Jesse».
Jesse. Accanto al fascicolo c’era la lettera della zia di Jesse, Maharet. La lettera diceva che Jesse era morta.
Attendevo, chiedendomi se dovevo costringerlo a parlare per primo. Ma non era mai stato il mio gioco preferito. Mi studiava con grande intensità, molto più intensamente di quanto io studiassi lui. Mi imprimeva nella sua memoria, usando piccoli sistemi che aveva imparato per registrare i dettagli, in modo da poterli rammentare più tardi, per quanto fosse grande lo choc dell’esperienza mentre si svolgeva.
Era alto, non grasso ma neppure snello. Una buona struttura. Mani grandi, ben fatte. Ed era molto curato. Un vero gentiluomo britannico, amante dei tweed, del cuoio e del legno scuro, del tè, dell’umidità e del parco buio, e dell’atmosfera sana e gradevole di quella casa.
Era sui sessantacinque anni. Un’ottima età. Sapeva cose che gli uomini più giovani non potevano conoscere. Era l’equivalente moderno dell’età di Marius nei tempi antichi. Non era affatto vecchio, per il ventesimo secolo.
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