«Sono qui, Lestat», rispose.
Scoppiai a ridere. «E non fu forse quella la risposta di Isaia quando il Signore chiamò? ‘Sono qui, Signore.’»
«Sì», confermò lei. La sua voce era a malapena udibile, ma chiara e ripulita dal tempo, tutto lo spessore della pelle ormai scomparso.
Mi avvicinai, lasciando la cappella per entrare nel piccolo vestibolo. David era in piedi accanto a lei, come il suo braccio destro unto da Dio, come se avesse potuto eseguire i suoi ordini in un attimo; e lei era la più anziana, be’,quasi la più anziana, la nostra Eva, la madre di tutti noi o la sola madre che rimaneva, e ora, mentre la guardavo, ricordai la terribile verità sui suoi occhi: quando era umana l’avevano accecata e gli occhi attraverso cui guardava adesso erano presi in prestito, umani.
Sanguinanti nella sua testa, occhi umani, sottratti a una persona viva o morta, non potevo saperlo, e collocati nelle sue orbite per essere nutriti il più a lungo possibile dal suo sangue vampiresco. Ma come sembravano stanchi nel suo bellissimo volto. Cosa aveva detto Jesse? È fatta di alabastro. E l’alabastro è una pietra attraverso cui può passare la luce.
«Non prenderò un occhio umano», mormorai.
Lei non disse nulla, non era venuta per giudicare, per dare consigli. Perché era venuta? Cosa voleva?
«Anche tu vuoi ascoltare la storia?»
«Il tuo gentile amico inglese dice che tutto è accaduto così come l’hai descritto. Dice che i canti che cantano alle televisioni sono veri; che sei l’angelo della notte, e che le hai portato il velo, e che lui era là e ha sentito il tuo racconto.»
«Non sono un angelo! Non ho mai avuto intenzione di darle il velo! L’ho preso come prova. L’ho preso perché...» La mia voce si era spezzata.
«Perché?» chiese lei.
«Perché me l’ha dato Cristo!» sussurrai. «Ha detto: ‘Prendilo’,e io l’ho fatto.»
Piansi. E lei rimase in attesa. Paziente, solenne. Louis rimase in attesa. E anche David. Alla fine smisi di piangere. «Scrivi ogni parola, David, se scrivi la storia, ogni parola ambigua, mi senti? Non la scriverò personalmente. No. Be’,forse... se non sono convinto che tu la stia presentando in modo adeguato, la scriverò, la scriverò una volta da cima a fondo. Cosa vuoi? Perché sei venuta? No, non la scriverò. Perché sei qui, Maharet, perché ti sei mostrata a me? Perché sei venuta nel nuovo castello della Bestia, a che scopo? Rispondimi.»
Lei non disse niente. I lunghi capelli rosso chiaro le arrivavano alla vita. Indossava abiti dalla foggia semplice che potevano passare inosservati in molte terre, una giacca lunga e ampia serrata sulla sua vita sottile da una cintura, una gonna che copriva la sommità dei suoi piccoli stivali. L’odore di sangue emanato dagli occhi umani nella sua testa era intenso. E, sfavillando nella sua testa, questi occhi morti mi apparivano orrendi, insopportabili.
«Non prenderò un occhio umano!» esclamai. Ma lo avevo già detto. Mi stavo dimostrando arrogante o insolente? Lei era così potente. «Non prenderò una vita umana», aggiunsi. Ecco cosa avevo voluto dire. «Non prenderò mai e poi mai, mai, finché vivo e sopporto e patisco la fame e soffro, una vita umana, né alzerò la mano contro il mio prossimo, che sia umano oppure uno di noi, non m’importa, non lo farò... io sono... io voglio... con le mie ultime forze non...»
«Ho intenzione di tenerti qui prigioniero. Per un po’. Finché non ti calmi», annunciò lei.
«Sei pazza. Non mi terrai da nessuna parte.»
«Ho delle catene che ti aspettano, Lestat. David, Louis: voi mi aiuterete.»
«Cosa sta succedendo? Come osate, voi due? Catene, stiamo parlando di catene? Cosa sono io, Azazel scaraventato nel pozzo? Memnoch si farebbe una bella risata vedendo tutto ciò, se non mi avesse voltato le spalle per sempre!»
Ma nessuno di loro si era mosso. Rimasero immobili, l’immensa riserva di potere di Maharet completamente celata dalla sua snella forma bianca. E stavano soffrendo. Oh, sentivo l’odore della sofferenza.
«Ho una missiva per te», disse lei. Allungò la mano. «E, mentre la leggerai, urlerai e piangerai, e noi ti terremo qui, al sicuro e tranquillo, finché non smetterai. Tutto qui. Sotto la mia protezione. In questo posto. Sarai mio prigioniero.»
«Cos’è? Cos’è?» domandai.
Era un pezzo di pergamena spiegazzata.
«Cosa diavolo è?» chiesi esasperato. «Chi te l’ha dato?» Non volevo toccarlo.
Lei mi prese la mano sinistra con la sua forza assolutamente irresistibile, costringendomi a lasciar cadere i libri contenuti nei sacchetti, e posò sul mio palmo il piccolo involto di pergamena spiegazzata.
«Mi è stato dato per te», spiegò.
«Da chi?» chiesi.
«Dalla persona di cui vedrai la calligrafia all’interno. Leggi.»
«Al diavolo!» imprecai. Con le dita della mano destra aprii la pergamena stropicciata, strappandola.
Il mio occhio. Il mio occhio brillava lì, sopra le righe scritte. Quel pacchettino conteneva il mio occhio; il mio occhio avvolto in una lettera. Il mio occhio azzurro, intatto e vivo.
Boccheggiando, lo presi e lo infilai nell’orbita indolenzita e dolorante, sentendo i suoi filamenti protendersi fino al cervello, intrecciandosi al suo interno. Il mondo divenne perfettamente visibile, in un lampo.
Lei era ferma a fissarmi.
«Hai detto che urlerò?» gridai. «Urlare? Perché? Cosa pensi che veda? Vedo solo ciò che vedevo prima!» Guardai da destra a sinistra, l’orrenda chiazza di oscurità ormai scomparsa, il mondo nella sua interezza, il vetro istoriato, il terzetto immobile che mi fissava. «Oh, grazie, Dio!» sussurrai. Ma cosa significava? Era una preghiera di ringraziamento o una semplice esclamazione?
«Leggi ciò che è scritto sulla pergamena», disse Maharet.
Una calligrafia arcaica, di cosa si trattava? Un’illusione! Parole di un linguaggio che non era affatto un linguaggio, eppure chiaramente articolate, tanto che potevo estrapolarle dal disegno ondeggiante, scritte con sangue, inchiostro e fuliggine:
Al mio Principe,
i miei ringraziamenti per un lavoro
svolto alla perfezione.
Con affetto,
Memnoch il Diavolo
Cominciai a ruggire. «Bugie, bugie, bugie!» Sentii le catene. «Quale metallo pensi che possa legarmi, abbattermi? Dannazione a voi! Bugie! Voi non l’avete visto. Lui non vi ha dato questo!»
David, Louis, la forza di Maharet, la sua forza inconcepibile — sin da epoche immemorabili, prima ancora che le prime tavolette venissero incise a Gerico —, mi circondarono, m’imprigionarono. Fu lei più di loro; io ero suo figlio, che si dibatteva e la malediceva.
Mi trascinarono via nell’oscurità, le mie urla che rimbalzavano sulle pareti, fino alla stanza che avevano scelto per me con le finestre murate, priva di luce, una prigione sotterranea, le catene che giravano tutt’intorno mentre mi divincolavo.
«Sono bugie, bugie, bugie! Non ci credo! Se sono stato abbindolato, è stato Dio a farlo!» Continuai a urlare. «È stato lui a farlo. Non è reale a meno che non l’abbia fatto Lui, Dio Incarnato. Non Memnoch. No, mai, mai. Bugie!»
Alla fine rimasi disteso lì, impotente. Non m’interessava. C’era qualcosa di consolante nell’essere incatenato, nell’essere incapace di percuotere le pareti coi pugni fino a spappolarli o sbattere la testa contro i mattoni, o peggio...
«Bugie, bugie, è tutto un immenso panorama di bugie! Non ho visto altro! Un ennesimo circo massimo di bugie!»
«Non sono solo bugie», disse lei. «Non tutte. È il dilemma antico come il tempo.»
Mi zittii. Sentivo il mio occhio sinistro inserirsi più a fondo e rafforzarsi nel mio cervello. Avevo quello. Avevo il mio occhio. E ripensavo al suo viso, al viso di Memnoch distorto dall’orrore quando aveva guardato il mio occhio, e alla storia dell’occhio di zio Mickey. Non riuscivo a capire. Avrei ricominciato a urlare.
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