Barbara Hambly - Il tempo del buio

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Notte dopo notte, Gil si scoperse a sognare di una città fantastica dove orrori alieni provenienti dalle profondità della terra e delle tenebre cercavano di distruggere la razza umana e tutte le opere dell’Uomo. Ma quando il Mago Ingold Inglorion attraversò il Vuoto alla ricerca del Santuario per l’ultimo Principe di Dar, si rese conto che i suoi sogni erano visioni assolutamente reali di una strana e singolare realtà.
Sul mondo di Ingold, il mostruoso Buio era stato solo una leggenda per oltre tremila anni, ma ora, per qualche ragione sconosciuta, si aggirava in cerca di preda per tutto il paese, e non c’era alcuna possibilità di fuga dai suoi spaventosi poteri e dal suo insaziabile appetito.
Cercando di aiutare Ingold, Gil e Rudy, due giovani cacciatori, vengono a trovarsi nello strano mondo del Buio. E qui sarebbero co stretti a rimanere per sempre, ammenochè non riescano a risolvere il mistero del Buio.
Frattanto, prima che riescano a realizzare quale potrà essere il loro destino, il Buio.

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Gil si guardò all’indietro cercando con gli occhi il piedistallo di marmo al quale potersi appoggiare: era debole per lo spavento, agitata per lo smarrimento e la paura, con le gambe che le tremavano mentre il respiro le si strozzava in gola. Lo Stregone stava lì e lei, improvvisamente, si rese conto che era impossibile aver paura in sua presenza. A bassa voce l’uomo le chiese:

«Chi sei?»

Con sua sorpresa trovò il fiato per rispondergli.

«Gil,» disse, «Gil Patterson.»

«Come hai fatto ad arrivare fin qui?»

Intorno a loro, il vento proveniente dalle porte soffiava sempre più veloce, freddo e pungente, vibrando di una sovrumana avidità. Le Guardie brontolarono, e la tensione che si andava accumulando tra di loro divenne visibile come il fremito di un filo teso. Anche loro avevano paura!

Ma lo Stregone non si mosse, e il pacato calore della sua voce non subì alcuna flessione.

«Io… io sto sognando…,» balbettò Gil. «Ma questo… io… non è più un sogno, vero?»

«No,» le rispose gentilmente il vecchio, «ma non aver paura.» Alzò le dita e fece alcuni movimenti in aria che la ragazza non riuscì a distinguere chiaramente. «Ritorna ai tuoi sogni!»

Non appena la nebulosità del sonno confuse i suoni, l’odore, la paura, e il freddo della notte svanirono. Gil si accorse che le Guardie osservavano con occhi vuoti le vacillanti ombre blu, le sole cose ancora in grado di vedere. Poi lo Stregone parlò loro brevemente, ed allora essi lo seguirono quando avanzò nel cortile deserto, affrontando il vento cupo e la minaccia di una morte misteriosa qual era quella annidata aldilà delle porte.

Sollevò la sua spada, una lama lunga e pesante che scintillò nell’oscurità come un lampo nel cielo sereno. Allora, quasi che un’esplosione avesse colpito l’intero edificio, le porte si spalancarono e l’oscurità che ne promanò si riversò fuori come una coltre di fumo.

Gil vide cosa nascondeva l’oscurità, e… furono le sue stesse grida di terrore a svegliarla.

Le mani le tremavano tanto che riuscì a malapena ad accendere la lampada sul comodino. L’orologio sul tavolo accanto al letto segnava le due e mezza. Madida di sudore e gelata come un cadavere, Gil si strinse al cuscino mormorando freneticamente a se stessa che si trattava solamente di un sogno… doveva trattarsi solamente di un sogno…

«Ho ventiquattro anni, sono una studentessa laureata in Storia Medioevale e conseguirò la Laurea in Filosofia tra meno di un anno: è stupido aver paura di un sogno! Ora è tutto finito, e niente di quello che mi è parso di vedere era vero… È stato soltanto un sogno!»

Pronunciò queste parole per convincere se stessa, ma non seppe trattenersi dal lanciare uno sguardo incerto e timoroso alla consolante familiarità degli oggetti presenti nel suo appartamento. I Levi’s penzolanti dal cassetto semiaperto del comò, il Rooster Cogburn dallo sguardo minaccioso che la fissava da un poster appeso alla parete, il disordine costituito dai libri, dagli indumenti, dai soldi e dalle riviste sparsi qua e là sul pavimento, la rassicurarono.

Pensò alla prima ora del seminario che l’attendeva il mattino seguente, poi guardò l’orologio e la lampada, e si mise a riflettere in attesa che sopraggiungesse il sonno. Nonostante fosse una ventiquattrenne prossima alla Laurea in Filosofia, troppo grande quindi per poter essere spaventata dai sogni, si agitò a lungo nel letto e, dopo un po’, cercò a tastoni sul comodino la « Vita di un girovago nel Medio Evo » trovandola quindi sul pavimento. Si immerse nella lettura e, per distrarre la mente, si costrinse ad interessarsi allo status legale vigente nell’Inghilterra del Quindicesimo Secolo.

Non si accorse di essersi addormentata sin quando non fu l’alba. Stranamente, al risveglio, Gil non ricordò niente del sogno che aveva fatto sino ad una settimana dopo, e quel che ricordò, mentre tornava a casa in macchina — una Wolksvagen rossa — dall’Università, nella luminosità dorata di un pomeriggio del settembre californiano, fu la voce dello Stregone. Si chiese smarrita dove l’avesse sentita mentre ne rammentava il timbro caldo, la cadenza caratteristica e la sua armonia vellutata capace di scivolare nella durezza per poi tornare ancora vellutata. Ricordò gli occhi, la città, le ombre, la paura.

Nell’esatto momento in cui svoltava con la sua automobile in Clarice Street, diretta al suo appartamento, capì che quella città le era apparsa in sogno più di una volta. Le tornò alla mente uno strano particolare del primo sogno proprio nel mezzo della solita manovra nel consueto stretto parcheggio del vicolo cieco in cui era solita fermarsi. Sebbene non ci fosse stato nulla di spaventoso nel sogno, ne era rimasta ugualmente spaventata, e si era svegliata coperta da un sudore gelido e con un senso diffuso di timore.

Aveva sognato di camminare sola in una camera a volta, tanto grande e spaziosa che le linee degli archi tappezzati d’ombra sui quali si appoggiava il basso soffitto a costoloni, sembravano dissolversi nell’oscurità che la sovrastava. Un fitto strato di polvere le ricopriva i piedi e, allo stesso modo, ricopriva un vecchio rotolo di gomena ed un mucchio di malandate scatole di cartone incastrate l’una nell’altra che giacevano tra i pilastri. Piccole particelle della stessa polvere danzavano in aria ed offuscavano il distante bagliore di una fioca luce giallastra proveniente da una piccola lampada di sego che bruciava in lontananza.

La polvere non era però la sola compagna di Gil: nella stanza aleggiava impalpabile, dotato di ubiquità come le ombre, un senso latente di paura, quasi che creature senz’occhi la stessero osservando nascoste nel buio. La pallida fiamma si rifletteva sugli ampi gradini rossi della scalinata e lasciava intravedere la sagoma di monumentali porte di bronzo. La plumbea oscurità del pavimento sembrava invece assorbire quella luce a dispetto del fatto che il basalto nero di cui era fatto fosse lucido, Uscio come vetro, e levigato dal passaggio di innumerevoli piedi. Come questo potesse accadere, Gil non lo sapeva: era chiaro, dal profondo strato intatto di polvere, che pochissime persone, forse nessuno, venivano in quel luogo.

Il pavimento era antico, più antico delle pareti, più antico ancora della stessa città, e Gil pensò, senza essere per niente sicura del perché lo sapesse, che fosse più antico di qualsiasi città del genere umano. Una sola cosa era nuova in quell’ambiente: nel bel mezzo di quel cupo impiantito, proprio davanti alla scala, una singola lastra spiccava tra le altre. La sua superficie ruvida, di granito grigio pallido, sembrava stridere nel contrasto con la consumata levigatezza del resto del pavimento, pur se anch’essa era ricoperta da quel millenario mantello di polvere.

Nell’oscurità intorno a lei sentì scricchiolare una porta, ed un riverbero di luce si rifletté tra gli archi. La ragazza scivolò nell’ombra di un pilastro nascondendosi istintivamente, anche se era conscia che si trattava di un sogno e che i suoi abitanti non avrebbero mai potuto scorgerla perché semplicemente non esistevano.

Dalle scale scese una donna, forse una serva a giudicare dai suoi vestiti, che portava con passi cadenzati un cesto sul braccio e teneva una lampada alta sulla testa. Dietro di lei camminava rumorosamente uno schiavo gobbo che scrutava l’oscurità che si stendeva tutto intorno con occhi foschi e diffidenti.

La donna scese dalle scale con aria indifferente e percorse il cupo pavimento levigato. Cambiò direzione per evitare di calpestare il lastrone di granito nonostante il suo obiettivo — una cesta di mele secche — fosse posto sul pavimento alla base delle scale, e lo strano pezzo di granito non fosse affatta sollevato dal resto del pavimento.

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