Richard Laymon - Melodia in nero

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Melanie Conway è una bella violinista spesso preda di inquietanti visioni di morte. Durante un concerto, si accascia per terra e il fidanzato Bodie la sente parlare di una tragedia imminente… Penelope Conway è perfino più seducente della sorella e, pur prendendosi sul serio come scrittrice, viene notata dagli uomini solo per le sue curve e, per giunta, è perseguitata da telefonate oscene… Attratto a un certo punto da entrambe le ragazze, Bodie si trova coinvolto in una vicenda agghiacciante, grondante sangue…

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Pen voltò una pagina del libro. I suoi occhi seguivano le parole e intanto tendeva le orecchie aspettandosi di sentire il lontano squillo del telefono. Tutto quello che sentì fu il lento gocciolio dell’acqua vicino ai piedi.

Chissà, forse non ritelefona più.

Oh, telefonerà, telefonerà.

Già quattro volte quella sera.

Probabilmente quattro, perché lei ne aveva ascoltato solo tre.

Lei gli aveva parlato quattro volte. Pronto. Mi dispiace, ma non posso rispondere in questo momento. Se mi lascia nome e… Quattro volte la sua voce era corsa sul filo ed era risuonata vicino all’orecchio di lui come un intimo bisbiglio. Lei se lo immaginava solo nella sua camera in compagnia della voce. Le luci erano spente, così lui poteva fingere che la voce fosse presente, che la mano di Pen lo toccasse nel buio…

Maledetta segreteria telefonica.

Non gli avrebbe dato un’altra occasione di usare la sua voce.

Regala la segreteria telefonica. Dalla a papà. «Non voglio quel dannato aggeggio», avrebbe dichiarato suo padre. «Regalala a qualcun altro.» Bello scherzo, pensò Pen. Avvolgere l’apparecchio in carta da regalo e osservare la reazione di papà. Pen sorrise al pensiero.

Ehi, pensò, complimenti, stai pensando a papà…

Che ne diresti se ti cacciassi la lingua…

Maledizione.

Strinse le cosce sollevando un’ondata di acqua calda che le lambì i seni. Voltò la pagina e continuò a leggere. «Penny si contorse sotto il letto.» Ehi, la protagonista ha il mio stesso nome. Tornò indietro di qualche pagina. Il nome Penny appariva quasi a ogni paragrafo. Chi è Penny? Che cosa succede? Sfogliando ciò che aveva letto finora, Pen si accorse di non aver assorbito neanche una parola.

Con un sospiro si mise seduta, allungò il braccio sopra il bordo della vasca e posò il libro sul pavimento accanto alla bottiglia di vino. Il bicchiere, poggiato sul bordo della vasca, era vuoto. Lo prese e lo riempì. Lo bevve per metà, poi tornò a riempirlo fino all’orlo e posò con cura la bottiglia sul bordo della vasca.

Non sbronzarti, potresti romperti la testa, uscendo e… Tale madre, tale figlia. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi del suo amichevole vicino pervertito.

Attenta a non versare il vino, si abbassò di nuovo nell’acqua calda. Più bassa, stavolta. Appoggiò la testa sul poggiatesta gonfiabile. Tenne il bicchiere vicino alla faccia e fissò il Borgogna.

Il colore del lividore post mortem.

Mamma…

Cristo, non pensare a lei.

Questa stava diventando una notte memorabile.

Colpa di quel verme che non conosco neppure.

Come faccio a dire che non lo conosco?

La voce.

Potrebbe aver cambiato voce, camuffandola.

Individui del genere, però, non chiamano solitamente degli estranei? Aprono l’elenco telefonico, scelgono un nome qualsiasi, purché non sia di un uomo. Non serve usare solo le iniziali. Lui vede P. Conway e capisce che non è Peter.

«Qui non c’è nessun Peter», mormorò Pen.

Cercò di bere un sorso.

Capì troppo tardi che avrebbe dovuto mettersi seduta.

Aveva l’orlo del bicchiere quasi alle labbra quando la base le sbatté sul petto. Il vino le colò nella bocca, si versò sul mento. Le parve di soffocare. Cercò di trattenere la sorsata in bocca, capì che le sarebbe andata su per il naso e la sputò fuori. Il vino divenne acqua rosa fra le sue gambe.

Pen tossì, annaspò, tirò un profondo respiro che le fece dolere i polmoni.

Bel lavoro.

Aveva gli occhi pieni di lacrime.

Meglio la mamma, che era annegata per una sorsata di Charles Krug.

Morte, come colpisci?

La nuvola rosa si allargò e svanì, ma l’aroma dolciastro del vino punse le narici di Pen.

Bevve quanto era rimasto nel bicchiere, lo mise da parte.

Facendo scivolare i piedi sul fondo della vasca, sollevò le ginocchia fuori dall’acqua. Si sporse avanti. Annusò. Un odore gradevole, ma doveva fare qualcosa, altrimenti le sarebbe rimasto addosso come un profumo versato, diventando nauseante.

Una serata infernale.

Allargò le ginocchia e si chinò per togliere il tappo della vasca. Il tappo di gomma venne via con uno schiocco. Il livello dell’acqua cominciò a scendere.

Una rapida doccia.

Lei odiava la doccia.

Non si sente un accidente.

La famiglia Manson poteva abbattere la tua porta, Norman Bates poteva entrare a passo di valzer cantando Mammy, il telefono…

Puoi cadere e spaccarti la testa.

Specialmente dopo aver bevuto.

Odiava la doccia.

Che cosa vuoi fare, puzzi di vino come se avessi fatto il bagno in un tino.

Pen girò la testa. Il bicchiere vuoto e la bottiglia semivuota stavano sul bordo della vasca. Avrebbe dovuto spostarli. Anche il libro sul pavimento. La doccia poteva provocare un vero disastro.

Allungò la mano per prendere la bottiglia.

Suonò il telefono.

Pen barcollò. La sua mano strinse il collo della bottiglia. E la tenne stretta.

Il telefono squillò di nuovo.

BASTARDO, NON HAI IL DIRITTO!

Ogni squillo era un colpo al cuore, le mancava il respiro.

Immaginò di emergere dalla vasca e di precipitarsi gocciolante nello studio. Sollevare la cornetta. Sporco degenerato, se mi richiami…

No, lui vuole proprio questo, la mia voce, la mia paura.

Un colpo di fischietto.

Il fischietto per chiamare la polizia era nel mazzo di chiavi. Che era nella borsetta. In soggiorno. Sul tavolino.

Prendilo e fischiagli nell’orecchio.

Così il tuo grosso cazzo si ammoscia, maledetto.

Finalmente il telefono tacque.

Pen rimase in ascolto. Sentiva il cuore battere forte, il respiro ansante, l’acqua che gorgogliava mentre la vasca si svuotava, silenzio dietro la porta del bagno.

Lui sa che sono in casa. La segreteria non ha risposto.

La vasca si svuotò. Pen rimase seduta, tutta bagnata. Aveva freddo, tremava.

Restò lì con le ginocchia sollevate, i seni contro le gambe, le braccia attorno agli stinchi. I denti serrati perché non battessero.

Gocce d’acqua le scendevano sulla pelle.

E adesso che cosa faccio?

Fa’ in modo che non richiami.

Strinse più forte le gambe.

Subito, ora.

Pen allentò la stretta.

Si sentiva molto nuda e vulnerabile quando si alzò in piedi sollevando una gamba oltre il bordo della vasca.

Se adesso suona, pensò, cado e mi fracasso la testa.

Sollevò l’altra gamba. Tutti e due i piedi sulla stuoia.

È scaduto il tempo, verme.

Ebbe la sensazione di averlo fregato, di aver ottenuto una piccola vittoria.

Poi l’asciugamano caldo e soffice. Le portò via l’umidità, calmò i brividi. Quando smise di stringere i denti, sentì il dolore alle mascelle.

Finì di asciugarsi, l’asciugamano aveva odore di Borgogna.

Se l’avvolse intorno ai seni e infilò un lembo per tenerlo stretto.

Alla porta, afferrò la maniglia ed esitò.

Sta’ calma, lui non è là fuori. Tutto a posto.

Girò la maniglia, la serratura scattò con un rumore sordo. Lei aprì la porta e cacciò la testa nella fessura. La luce accesa in soggiorno, nello studio e in camera da letto si rifletteva nel corridoio. Niente sembrava anormale. Ma tutto le appariva sbagliato, stranamente mutato e insolito.

Rimase in ascolto.

Il leggero ronzio del frigorifero, niente altro.

Una goccia d’acqua le scivolò dietro una gamba. Allungò una mano per asciugarla.

Aspetta ancora un po’. Rimani qui finché richiama.

Pen avanzò nel corridoio. Sbirciò in camera da letto mentre passava davanti alla porta.

Nessuno balzò fuori.

Si fermò alla porta dello studio. Vide la cassetta sul tappeto, la segreteria telefonica accanto alla macchina da scrivere.

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