Nancy Kress - Mendicanti di Spagna

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Mendicanti di Spagna: краткое содержание, описание и аннотация

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Si gettò di lato su una poltrona in pelle con le gambe lunghe e sottili che pendevano da sopra il bracciolo. Si grattò distrattamente una puntura di zanzara che aveva sulla coscia. — Benissimo, allora, mi piacerebbe incontrare Richard Keller. — Abitava a Chicago ed era l’Insonne beta-test più vicino alla sua età. Il ragazzo aveva diciassette anni.

— Perché lo chiedi a me? Perché non ci vai e basta?

Leisha pensò di avvertire una nota di impazienza nella voce del padre. Gli piaceva che fosse lei a esplorare per prima le situazioni, per poi parlarne con lui in seguito. Tutt’e due le parti erano importanti.

Leisha si mise a ridere. — Sai una cosa, Papà? Sei prevedibile.

Anche Camden si mise a ridere. Nel bel mezzo della risata arrivò Susan. — Non lo è di sicuro. Roger, che mi dici del meeting a Buenos Aires di giovedì? Ci vai o no? — Visto che lui non rispose, la voce della donna si fece più stridula. — Roger? Sto parlando con te!

Leisha distolse lo sguardo. Due anni prima Susan aveva abbandonato il campo della ricerca genetica per gestire la casa e l’agenda di Camden; prima di allora aveva cercato strenuamente di fare tutt’e due le cose. A Leisha sembrava che Susan, da quando aveva lasciato la Biotech, fosse cambiata. Aveva un tono di voce più duro. Insisteva molto di più perché Cook e il giardiniere seguissero le sue istruzioni alla lettera, senza deviare. La sua chioma bionda era divenuta una rigida scultura di onde color platino.

— Ci vado — rispose Roger.

— Be’, grazie per avermi quanto meno risposto. Devo andare?

— Se desideri.

— Desidero.

Susan lasciò la stanza. Leisha si alzò e si stiracchiò. Le sue gambe lunghe si alzarono sulla punta dei piedi. Era bello stiracchiarsi, allungarsi, sentire la luce del sole proveniente dalle ampie finestre inondarle il volto. Sorrise a suo padre e lo trovò a fissarla con un’espressione che non si aspettava.

— Leisha…

— Cosa c’è?

— Vai a trovare Keller. Ma stai attenta.

— A cosa?

Camden, però, non le rispose.

La voce al telefono era stata indifferente. — Leisha Camden? Si, so chi sei. Giovedì alle tre? — La casa era modesta, un edificio coloniale di trent’anni in una tranquilla strada dei sobborghi dove i bambini piccoli sulle biciclette potevano essere osservati e controllati dalla finestra. Pochi tetti avevano più di una cellula a energia-Y. Gli alberi, vecchi e immensi aceri canadesi, erano magnifici.

— Entra — disse Richard Keller.

Non era più alto di lei, era robusto e aveva una brutta acne. Probabilmente non aveva subito altre alterazioni genetiche oltre quella relativa al sonno, immaginò Leisha. Aveva folti capelli scuri, fronte bassa e sopracciglia nere e cespugliose. Prima che chiudesse la porta, Leisha lo vide fissare la sua automobile con autista parcheggiata nel vialetto accanto a una bicicletta arrugginita a dieci marce.

— Non posso ancora guidare — disse lei. — Ho solo quindici anni.

— Imparare è facile — commentò Richard. — Allora, mi vuoi dire perché sei qui?

Leisha gradì i modi diretti. — Per conoscere qualche altro Insonne.

— Vuoi dire che non ne hai mai incontrati? Nemmeno uno di noi?

— E tu vuoi dire che il resto di voi si conosce già? — La ragazza non se l’era aspettato.

— Vieni nella mia stanza, Leisha.

Lei lo seguì sul retro della casa. Sembrava non esserci nessun altro. La stanza di Richard era ampia e arieggiata, piena di computer e schedari. C’era un vogatore in un angolo: sembrava una versione più trascurata della camera di un qualsiasi brillante compagno di scuola della Sauley, solo che la mancanza di un letto la rendeva più spaziosa. Leisha si avvicinò al video del computer.

— Ehi, stai lavorando alle equazioni di Boesc?

— Una loro applicazione.

— Per che cosa?

— Schemi delle migrazioni dei pesci.

Leisha sorrise. — Già, andrebbe bene. Non ci avevo mai pensato.

Richard sembrò non sapere che farsene del suo sorriso. Fissò la parete, quindi il mento di lei. — Ti interessi degli schemi geologici? Dell’ambiente?

— Be’, no — confessò Leisha. — Non in particolare. Io andrò a studiare scienze politiche ad Harvard. Propedeutico a legge. Ovviamente, però, abbiamo studiato gli schemi geologici a scuola.

Finalmente lo sguardo di Richard le si scollò dal volto. Lui si passò una mano nei capelli scuri. — Siedi pure, se vuoi.

Leisha si sedette osservando, con ammirazione, i poster alle pareti che ondeggiavano dal verde al blu come correnti oceaniche.

— Mi piacciono molto. Li hai programmati da solo?

— Non sei affatto come ti avevo immaginato — disse Richard.

— Come mi avevi immaginato?

Lui non esitò. — Snob. Superba. Superficiale nonostante l’alto quoziente intellettivo.

Lei restò più ferita di quanto non si sarebbe aspettata.

Richard sbottò: — Sei una dei due unici Insonni veramente ricchi. Tu e Jennifer Sharifi. Ma lo sapevi già.

— No, non lo sapevo. Non avevo mai controllato.

Richard prese la sedia accanto a quella di lei, allungandosi davanti al corpo le gambe tozze in una posizione scomposta che non aveva nulla a che fare con il rilassamento. — È una cosa sensata, in realtà. Le persone ricche non fanno modificare geneticamente i figli perché siano superiori: ritengono che qualunque loro discendente sia già superiore. Secondo i loro valori. Le persone povere non se lo possono permettere. Noi Insonni proveniamo dall’alta classe media, niente più. Figli di professori, scienziati, gente che stima il cervello e il tempo.

— Anche mio padre stima cervello e tempo — disse Leisha. — È il più grande sostenitore di Kenzo Yagai.

— Oh, Leisha, pensi che non lo sapessi già? Ti stai vantando con me o cosa?

Leisha disse con tono estremamente ponderato: — Io sto parlando con te. — Un istante dopo, tuttavia, si rese conto del turbamento per l’offesa che le si diffondeva sul volto.

— Mi dispiace - bofonchiò Richard. Balzò via dalla seggiola e cominciò a camminare a lunghi passi avanti e indietro dal computer. — Mi dispiace davvero. Ma io non… non capisco che cosa ci fai tu qui.

— Io sono sola - disse Leisha, sorpresa di se stessa. Sollevò lo sguardo verso di lui. — È vero. Sono sola. Davvero. Ho degli amici, Papà e Alice. Ma nessuno sa realmente, capisce realmente… che cosa? Non so nemmeno io quello che sto dicendo.

Richard sorrise. Quel sorriso gli cambiò interamente il volto, aprendo alla luce le sue superfici scure. — Io si. Oh, se lo so. Che fai quando ti dicono "che razza di sogno ho fatto la notte scorsa"?

— Già! — replicò Leisha. — Ma è una cosa di minore importanza. Più che tutto quando io dico "te lo controllo io questa notte", e assumono tutti quella espressione strana che significa "lo farà mentre io dormo".

— Ma anche questa è una cosa da poco — ribatté Richard. — È quando giochi a pallacanestro in palestra dopo cena, poi mangi qualcosa e poi dici "andiamo a fare una passeggiata al lago" e ti rispondono "adesso sono davvero stanco, vado a casa a letto".

— Ma questo è meno importante ancora — disse Leisha balzando in piedi. — E quando sei preso da un film e si arriva al punto cruciale e tutto è così maledettamente bello che tu scatti su e gridi "Sì! Sì!" e Susan dice: "Leisha, credi davvero che nessuno oltre te abbia mai goduto di qualcosa?".

— Chi è Susan? — chiese Richard.

L’atmosfera si infranse. Non fino in fondo, però. Leisha riuscì a dire "la mia matrigna" senza provare un grande disagio per ciò che Susan aveva promesso di essere e ciò che invece era diventata. Richard era in piedi a qualche centimetro da lei, le sorrideva in quel modo gioioso, la comprendeva e, all’improvviso, Leisha si sentì avvolgere da un sollievo così forte che si diresse da lui e gli gettò le braccia al collo, irrigidendole solo quando si accorse dello scatto del ragazzo. Leisha cominciò a singhiozzare, lei che non piangeva mai.

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