Elizabeth Moon - La velocità del buio

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Prego, entrate in un altro mondo. Un mondo futuro in cui è fin troppo facile essere considerati anormali. Lou Arrendale è un isolato, uno di quei soggetti che i medici definiscono autistici. Finché la multinazionale farmaceutica per cui lavora lo mette di fronte a un traumatico dilemma: sottoporsi a un esperimento rivoluzionario o perdere il posto e disperdersi nel caos. Il problema di quelli come Lou è molto semplice: rinunciare all’unico contatto con il mondo esterno o accettare la cura e trasformarsi in uomini qualunque, nuovi schiavi di una personalità prefabbricata e servile?

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È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all’infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.

Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.

Quando torno a emergere è passata l’ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.

Mangio una mela e qualche chicco d’uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.

Il pomeriggio pare trascinarsi all’infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c’è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.

È difficile guidare bene col caldo che fa e con la musica sbagliata nella mente. La luce rimbalza dal parabrezza, dalle guarnizioni di metallo, dai parafanghi: ci sono troppi bagliori lampeggianti. Quando arrivo a casa la testa mi fa più male che mai e tremo dal nervosismo. In camera da letto chiudo la porta e le finestre e tolgo i cuscini dal letto. Poi mi corico, mi ammucchio sopra i cuscini e spengo la luce.

Anche questa è una cosa che non ho mai detto alla dottoressa Fornum: lei scriverebbe chissà quante annotazioni sul fatto, io lo so. Rimango sdraiato nel buio, la pressione leggera e soffice pian piano calma la mia tensione e la musica sbagliata che ho nella testa si acquieta. Mi sembra di galleggiare in un silenzio morbido e buio…

Alla fine sono pronto ad avere di nuovo pensieri e sentimenti. Sono triste; e non ho il diritto di esserlo. Mi ripeto tutto ciò che mi direbbe la dottoressa Fornum. Sono in buona salute, ho un lavoro che mi frutta una buona paga, ho un posto dove vivere, abiti e cibo. Ho un raro permesso per possedere un’automobile privata, così che non sono obbligato a viaggiare con qualcun altro o a prendere i mezzi pubblici affollati e rumorosi. Sono fortunato.

Eppure continuo a essere triste. Mi sforzo come posso, ma non è mai abbastanza. Porto gli stessi vestiti degli altri, dico le stesse cose nelle stesse occasioni: buon giorno, ciao, come stai, sto bene, buona notte, per favore, grazie, prego. Rispetto il codice della strada, obbedisco alle regole. Nel mio appartamento ci sono mobili comuni, e la mia musica non tanto comune la suono piano o uso gli auricolari. Ma non è abbastanza. Per quanto mi sforzi, la gente normale continua a volere che cambi, che diventi come loro.

Credevo di essere al sicuro vivendo da solo, vivendo come tutti gli altri. E invece non lo sono.

Sotto i cuscini sto ricominciando a tremare. Vedo di nuovo le etichette che mi porto addosso, le etichette che hanno affollato la mia cartella da quando ero bambino: diagnosi primaria, autismo; deficienze nell’integrazione sensoriale; deficienze nei processi auditivi; deficienze nei processi visivi; mancanza di sensibilità tattile.

Uno del nostro gruppo una volta disse che tutti i bambini nascono autistici, e noi ridemmo nervosamente. Non si poteva negarlo, ma era pericoloso dirlo.

Un bambino neurologicamente normale impiega anni per imparare a integrare l’insieme degli stimoli forniti dai sensi in un concetto coerente del mondo. Io affrontai quel compito esattamente come ogni altro bambino, solo che a me ci volle molto di più… e posso ammettere che l’organizzazione dei dati sensoriali per me non è un processo normale nemmeno oggi. Dapprima venni colpito da un autentico bombardamento di stimoli sensoriali scatenati e promiscui, quindi mi proteggevo da un sovraccarico di sensazioni mediante il sonno e la disattenzione.

Leggendo i testi voi potreste pensare che solo i bambini handicappati neurologicamente si comportano così, invece tutti i bambini gestiscono la loro esposizione agli stimoli chiudendo gli occhi, distogliendo lo sguardo o semplicemente addormentandosi quando il mondo comincia a sopraffarli. Col tempo imparano a organizzare un blocco di dati e poi un altro, imparano che certi schemi di eccitazione retinica segnalano determinati eventi nel mondo visibile, che certi schemi di eccitazione auditiva segnalano una voce umana… e poi quali cose dice questa voce.

Per me, per un individuo autistico, questo processo impiega un tempo assai maggiore. I miei genitori me lo spiegarono quando fui cresciuto abbastanza da capire: per qualche ragione i miei nervi infantili avevano bisogno che uno stimolo persistesse molto a lungo prima che io potessi interpretarlo. Sia io che loro fummo abbastanza fortunati per il fatto che erano state elaborate tecniche adatte a procurare ai miei neuroni segnali della durata adatta. Invece di essere biasimato per la mia "mancanza di attenzione" (questo era l’atteggiamento più comune), mi vennero forniti stimoli che ero "capace" d’interpretare.

Ricordo il tempo (prima che fossi sottoposto al programma d’insegnamento primario di apprendimento del linguaggio con l’assistenza del computer) in cui i suoni che uscivano dalla bocca della gente per me erano confusi e incomprensibili come e più del muggito di una mucca. Potevo distinguere pochissime consonanti, perché non duravano abbastanza a lungo. La terapia mi fu di aiuto: il computer allungava i suoni finché fossi in grado di udirli, e pian piano il mio cervello imparò a captare anche segnali più brevi. Non tutti, però. Anche oggi, se una persona parla molto velocemente, io non riesco a capirla per quanto mi concentri.

Prima era molto peggio. Prima della terapia assistita dal computer, i bambini come me potevano non imparare alcun linguaggio. Verso la metà del Ventesimo secolo, i terapisti pensavano che l’autismo fosse una malattia mentale, come la schizofrenia. Mia madre aveva letto un testo scritto da una donna alla quale avevano detto che era stata lei a rendere malato di mente il figlio. L’idea che gli autistici possano diventare malati di mente, comunque, è persistita quasi fino ai tempi nostri. Ecco perché devo farmi visitare periodicamente dalla dottoressa Fornum: perché lei si assicuri che non sto sviluppando qualche malattia mentale.

Mi chiedo se il signor Crenshaw pensi che sono pazzo. Sarà per questo che la sua faccia diventa lucida quando parla con me? Ha paura? Non credo che il signor Aldrin abbia paura di me… di nessuno di noi. Ci parla come se fossimo persone normali. Invece il signor Crenshaw mi tratta come se fossi un animale ostinato che lui deve ammaestrare. Spesso io ho paura, ma adesso, dopo questo periodo di riposo sotto i cuscini, mi pare di non averla più.

Quel che vorrei davvero è andar fuori a guardare le stelle. I miei genitori mi portavano a fare il campeggio nel Sudovest; ricordo quando stavo sdraiato all’aperto e guardavo tutte quelle belle configurazioni che continuavano, una dopo l’altra, all’infinito. Quanto vorrei vedere ancora le stelle. Mi facevano sentire calmo quando ero bambino, mi mostravano un universo ordinato, in cui io potevo essere una piccolissima parte di un immenso disegno. Quando i miei genitori mi spiegavano a quale grande distanza la luce aveva viaggiato per raggiungere i miei occhi (migliaia, milioni di anni) mi sentivo consolato, anche se non posso dire perché.

Da qui non posso vedere le stelle. I fanali nel parcheggio accanto al nostro palazzo sono lampade al sodio che emettono una luce giallastra e fanno sembrare torbida l’aria, così che le stelle non possono apparire attraverso il nero opaco del cielo. Solo la Luna e poche stelle molto luminose vi si mostrano.

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