Qué río ésta
por el cual corre el Ganges?
J.L. Borges:
Heráclito
«Cassiere al Sette!» e via, di nuovo tra le casse, a scaricare i carrelli, le mele tre per ottantanove, gli ananas a pezzetti in offerta speciale, mezzo gallone al due per cento, settantacinque, quattro e uno fa cinque, grazie, dalle dieci alle sei per sei giorni la settimana; e lui se la cavava bene. Il direttore, un uomo di limatura di ferro e di bile, si complimentava per la sua efficienza. Gli altri cassieri, più anziani, sposati, parlavano di baseball, di football americano, d’ipoteche, di ortodontisti. Lo chiamavano tutti Rodge, tranne Donna, che lo chiamava Buck. I clienti, nelle ore di punta, erano mani che porgevano denaro e ritiravano denaro. Nei momenti morti, i vecchi e le vecchie amavano parlare, e non aveva molta importanza quello che rispondevi, tanto non ti ascoltavano. L’efficienza gli permetteva di destreggiarsi bene nel suo lavoro, giorno per giorno, ma non oltre. Otto ore al giorno di tagliolini in brodo, due per sessantanove, cibo per cani in offerta speciale, mezza pinta di Derry Wip, novantacinque, uno, e cinque fa quaranta. Tornava indietro a piedi fino a Oak Valley Road e cenava insieme a sua madre, guardava un po’ la televisione e poi andava a dormire. Qualche volta si domandava che cosa avrebbe fatto se Sam’s Thrift-E-Mart fosse stato dall’altra parte della superstrada, perché non c’erano passaggi pedonali per quattro isolati da una parte e per sei dall’altra, e lui non ci sarebbe mai arrivato. Invece c’era andato in macchina per fare rifornimento il giorno dopo il trasloco, aveva visto il cartello CERCASI CASSIERE, appeso lì da mezz’ora soltanto. Se non fosse incappato in quel lavoro avrebbe comperato una macchina per poter andare a lavorare nel centro della città, come aveva progettato. Ma non sarebbe stata una gran macchina, mentre adesso stava mettendo da parte una somma sufficiente per acquistarne una decente, quando fosse venuto il momento. Lui avrebbe preferito vivere in città e fare a meno della macchina, ma a sua madre le città facevano paura. Guardava le macchine, mentre tornava a casa a piedi, e si domandava quale avrebbe potuto acquistare, quando fosse venuto quel tale momento. Le automobili non gli interessavano molto; ma dato che aveva rinunciato all’idea di proseguire gli studi, avrebbe finito per spendere il denaro per qualche cosa, alla fine, e la sua mente ricadeva sempre nella stessa abitudine, quando lui ritornava a casa a piedi; era stanco, e per tutto il giorno aveva maneggiato roba in vendita e il denaro che la pagava, fino a quando nella sua mente non c’era posto per nient’altro, perché le sue mani non stringevano mai nient’altro, eppure non trattenevano mai nulla.
All’inizio della primavera, quando si erano appena trasferiti lì, il cielo sopra i tetti brillava di un verde freddo e d’oro, mentre lui ritornava a casa. Adesso, in estate, le strade prive d’alberi erano ancora luminose e caldissime alle sette. Gli aerei che decollavano dall’aeroporto, dieci miglia più a sud, tagliavano quel cielo pesante e abbacinante, trascinandosi dietro il rombo e la loro ombra; le altalene rotte dei campi giochi scricchiolavano lungo i viali. Quel quartiere residenziale si chiamava Kensington Heights. Per raggiungere Oak Valley Road, lui attraversava Loma Linda Drive, Raleigh Drive, Pine View Place, svoltava in Kensington Avenue, attraversava Chelsea Oaks Road. Non c’erano alture, né valli, né Raleigh, né querce. Su Oak Valley Road le case erano palazzine a due piani esafamiliari, dipinte di marrone e di bianco. Fra un garage e l’altro c’erano piccoli tratti a prato, bordati di pietre bianche frantumate e piantati a ginepri. Gli incarti della gomma da masticare, le lattine delle bevande analcoliche, i coperchi di plastica, i gusci e gli scheletri indistruttibili delle merci deperibili che lui maneggiava alla cassa del supermarket giacevano fra le pietre bianche e le piante scure. Su Raleigh Drive e Pine View Place le case erano bifamiliari e su Loma Linda Drive erano unifamiliari, ognuna con il suo vialetto, il suo garage, il suo prato, le pietre bianche e i ginepri. I marciapiedi erano pianeggianti, le strade livellate, il terreno piatto. La città vecchia, il centro, sorgeva sulle colline al disopra di un fiume, ma tutti i sobborghi a est e a nord erano piatti. L’unica vista che lui avesse mai avuto, lì, l’aveva veduta il giorno in cui erano arrivati dall’est con l’U-Haul. Poco prima del cartello che indicava i limiti della città c’era una specie di viadotto della superstrada, e da lassù vedevi i campi sottostanti. Più oltre, c’era la città, avvolta in una foschia dorata. Campi, prati immersi in quella luce tenue della sera, e le ombre degli alberi. Poi una fabbrica di vernici con l’insegna multicolore rivolta verso la superstrada, e quindi incominciavano i quartieri residenziali.
Una sera, dopo il lavoro, una sera afosa, lui attraversò il grande parcheggio di Sam’s Thrift-E-Mart e salì la rampa che portava alla stretta banchina pedonale della superstrada, per scoprire se poteva ritornare indietro, verso la campagna, nei campi che aveva visto: ma era impossibile. Pezzi di carta e di metallo e di plastica per terra, l’aria sferzata e sconvolta dai risucchi e il suolo che tremava ogni volta che un camion si avvicinava e passava oltre, i timpani aggrediti dal chiasso, e nient’altro da respirare che gomma bruciata e vapori di nafta. Dopo mezz’ora desistette e cercò di lasciare la superstrada; ma le vie suburbane erano divise dalla scarpata della grande arteria per mezzo di una recinzione. Doveva ritornare indietro e riattraversare il parcheggio del Thrift-E-Mart per arrivare a Kensington Avenue. Quella sconfitta lo lasciò tremante e irritato, come se fosse stato vittima di un’aggressione. L’automobile di sua madre non era nel posto macchina. Quando entrò, il telefono squillava.
— Eccoti, finalmente! È un pezzo che ti sto chiamando. Dov’eri andato? Ho già chiamato altre due volte. Resterò qui fin verso le dieci. Da Durbina. In frigo c’è il tacchino per la cena. Non usare i pranzi pronti Orientai Menu, sono per mercoledì. C’è un Mixon’s Turkey Dinner. — Un dollaro e ventinove, squillò qualcosa nella sua testa, grazie. — Mi perderò l’inizio del film sul Canale Sei, guardalo tu per me fino al mio ritorno.
— D’accordo.
— Allora ciao.
— Ciao.
— Hugh?
— Sì.
— Come mai hai fatto così tardi?
— Sono tornato a casa per un’altra strada.
— Mi sembri così irritato.
— Non so.
— Prendi un’aspirina. E fai una doccia fredda. È così caldo. Piacerebbe anche a me. Ma non tornerò tardi. Sii prudente. Non esci, vero?
— No.
Lei esitò, non disse nulla, ma non riattaccò. Lui disse: — Ciao — e riattaccò, e rimase accanto al tavolino del telefono. Si sentiva pesante; un animale pesante, massiccio e grinzoso, con il labro inferiore penzolante e i piedi come pneumatici di camion. Perché sei in ritardo di un quarto d’ora, perché sei irritato, stai attento a non mangiare l’Oriental Menu, non uscire. D’accordo. Stai attento, stai attento. Andò a mettere in forno il Mixon’s Turkey Dinner, anche se non aveva preriscaldato il forno come dicevano le istruzioni, e regolò il segnatempo. Aveva fame. Aveva sempre fame. O meglio, non aveva sempre fame, esattamente, ma aveva sempre voglia di mangiare. C’era un sacchetto di noccioline nell’armadietto; lo portò in soggiorno e accese la televisione e sedette in poltrona. La poltrona tremò e scricchiolò sotto il suo peso. Si alzò di scatto, lasciando cadere il sacchetto di noccioline che aveva appena aperto. Era troppo: l’elefante che mangiava noccioline. Sentiva che aveva la bocca aperta, perché gli sembrava di non riuscire a riempirsi d’aria i polmoni. Aveva la gola chiusa da qualcosa che cercava di uscirne. Rimase ritto accanto alla poltrona, scosso da brividi convulsi, e la cosa che gli ostruiva la gola uscì sotto forma di parole. — Non posso, non posso — disse a voce alta.
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