Senza armatura, Koris appariva ancora più strano. Le spalle troppo larghe, le braccia troppo lunghe sembravano pesare più del resto del suo corpo. Non era alto: e la vita sottile, le gambe snelle apparivano ancora più minute in confronto alla parte superiore del corpo. Ma su quelle spalle c’era la testa dell’uomo che Koris avrebbe potuto essere se la natura non gli avesse giocato quello scherzo crudele. Sotto la calotta di folti capelli color grano c’era il volto di un ragazzo appena divenuto uomo… di un ragazzo che non era soddisfatto di ciò che era. Era un volto di una bellezza sorprendente, in contrasto con quelle spalle: la testa di un eroe abbinata al corpo di uno scimmione.
Simon gettò le gambe giù dal letto e si alzò: per un momento gli spiacque di costringere l’altro a guardarlo di sotto in su. Ma Koris era arretrato con la prontezza di un gatto, e s’era seduto sotto un largo cornicione di pietra che correva sotto una feritoia, ed i suoi occhi erano ancora all’altezza di quelli di Tregarth. Con un’eleganza che contrastava con l’eccessiva lunghezza del braccio indicò un cassettone, su cui stava un mucchio d’indumenti.
Non era l’abito di tweed che si era tolto prima di buttarsi nel letto, notò Simon. Ma vide qualcosa d’altro, una sottile conferma della sua posizione. La pistola automatica e il contenuto delle sue tasche erano stati disposti in ordine meticoloso accanto agli abiti nuovi. Non era prigioniero, qualunque fosse il suo status sociale in quella fortezza.
Infilò le brache di morbido cuoio, simili a quelle che ora portava Koris. Morbide come guanti, erano di un colore azzurro cupo. E c’era un paio di stivali di una sostanza grigioargentea che sembrava pelle di rettile. Indossò anche quelli, poi si rivolse a Koris e gesticolò per indicare che desiderava lavarsi.
Per la prima volta, l’ombra di un sorriso sfiorò la bocca della guardia, che indicò un’alcova. La fortezza di Estcarp poteva apparire medievale, ma Simon scoprì che i suoi abitanti avevano idee moderne in fatto d’igiene. L’acqua prese a scorrere calda da un tubo, quando venne girata una semplice leva; e c’era un barattolo di crema dal lieve profumo, che applicata e rimossa toglieva il prurito della barba lunga. E insieme a quelle scoperte venne una lezione di lingua, fino a quando Simon poté disporre di un crescente vocabolario di parole che Koris gli ripeteva pazientemente fino a quando lui le aveva imparate.
L’ufficiale aveva un atteggiamento di studiata neutralità. Non mostrava iniziative amichevoli, a parte l’insegnamento della lingua. E non accettò i tentativi di Simon per una conversazione più personale. Mentre Tregarth indossava il giaco, Koris si girò sul cornicione per guardare, fuori, il cielo diurno.
Simon soppesò nella mano l’automatica. L’ufficiale escarpiano sembrava non preoccuparsi che lo straniero fosse armato o no. Alla fine, Tregarth l’infilò nella cintura, sopra lo stomaco vuoto, e fece segno di essere pronto.
La stanza dava su un corridoio: poco più avanti c’era una scala che scendeva. L’impressione di antichità incommensurabile trovò conferma nei gradini consunti, nel solco che correva lungo la parete sinistra, dove per chissà quanti secoli era stata sfiorata dalle dita di coloro che passavano di lì. Una luce pallida s’irradiava da globi posti in alto, entro canestri metallici: ma l’origine di quel chiarore restava misteriosa.
Ai piedi della scala c’era un corridoio più ampio: e c’erano uomini che lo percorrevano. Alcuni, dagli usberghi a scaglie, erano guardie in servizio; altri portavano abiti più comodi, come quelli indossati da Simon. Salutavano Koris e guardavano lui con una curiosità un po’ cupa che gli pareva vagamente sconcertante: ma nessuno parlava. Koris toccò il braccio di Tregarth, indicò un passaggio chiuso da una tenda, e scostò un lembo della stoffa in un modo che esprimeva un ordine.
Oltre la tenda c’era un altro corridoio. Ma qui la pietra nuda delle pareti era coperta da arazzi ornati degli stessi simboli che Simon aveva veduto sul baldacchino del letto, per metà familiari e per metà alieni. Una sentinella si mise sull’attenti sul fondo, portandosi alle labbra l’elsa della spada. Koris scostò un’altra tenda, ma questa volta accennò a Simon di precederlo.
La sala sembrava più grande di quanto fosse in realtà, perché aveva una volta altissima. La luce dei globi era più forte, e i loro raggi, sebbene non riuscissero a penetrare fra quelle ombre, mostravano chiaramente la scena.
C’erano due donne ad attenderlo… le prime che avesse viste all’interno della fortezza. Ma dovette guardare più attentamente per riconoscere in quella che stava in piedi, con la destra posata sulla spalliera di un seggiolone su cui sedeva l’altra, la donna che aveva visto fuggire inseguita dai cacciatori di Alizon. I capelli che allora le pendevano sulle spalle in ciocche fradice erano raccolti severamente in una reticella d’argento, e la sua figura era coperta dalla gola alle caviglie da una pudica veste dello stesso colore nebbioso. L’unico ornamento era un cristallo ovale come quello che allora aveva portato sul bracciale: ma era appeso ad una catena, e riposava tra le piccole curve dei seni.
«Simon Tregarth!» Fu la donna seduta a rivolgersi a lui: la guardò, e non riuscì a distoglierne gli occhi.
La donna aveva lo stesso volto triangolare, gli stessi occhi indagatori, gli stessi capelli neri ravvolti in una reticella. Ma il potere che irradiava da lei era violento come una folgore. Simon non avrebbe saputo dirne l’età, perché in un certo senso quella donna poteva avere visto posare l’una sull’altra le prime pietre di Estcarp. Ma a lui sembrava senza età. Alzò la mano di scatto e lanciò verso di lui una sfera che sembrava dello stesso cristallo nebuloso che lei e la sua compagna portavano come gemme.
Simon l’afferrò al volo. Sotto le sue dita non era fredda come aveva immaginato, ma tiepida. E mentre la circondava istintivamente con le palme, la mano della donna si chiuse sulla gemma, in un gesto subito imitato dall’altra.
Tregarth non riuscì mai a spiegare, neppure a se stesso, ciò che avvenne allora. Stranamente, raffigurò nei propri pensieri la serie di azioni che l’avevano condotto nel mondo di Estcarp, e nello stesso istante comprese che quelle due donne silenziose vedevano ciò che lui aveva visto, e in una certa misura condividevano le sue emozioni. Appena ebbe finito, un torrente d’informazioni fluì verso di lui.
Si trovava nella fortezza principale di una terra minacciata, forse condannata. L’antichissimo paese di Estcarp era minacciato dal nord e dal sud, e anche dal mare, a occidente. Solo perché erano eredi di una sapienza antichissima, gli abitanti dei suoi campi, dei villaggi e delle città erano riusciti a resistere alla pressione. Forse la loro era una battaglia perduta, ma sarebbero caduti combattendo fino all’ultimo colpo di spada, fino all’ultima arma che un uomo od una donna potesse impugnare.
E la stessa ansia che aveva trascinato Simon sotto il rozzo arco nel cortile di Petronius, si riaccese di nuovo dentro di lui. Le due donne non gli chiedevano nulla: il loro orgoglio era inflessibile. Ma Simon Tregarth promise la sua devozione alla donna che l’aveva interrogato, e in quel momento scelse, con uno slancio d’entusiasmo sincero e fanciullesco. Senza che fosse stata pronunciata una parola, Simon entrò al servizio di Estcarp.
Capitolo quarto
L’appello di Forte Sulcar
Simon si portò alle labbra il pesante boccale, e osservò attentamente la scena. All’inizio, aveva giudicato gli abitanti di Estcarp cupi e malinconici, oppressi dal peso schiacciante degli anni, ultimi resti d’una razza morente che aveva dimenticato tutto, tranne i sogni del passato. Ma durante quelle ultime settimane aveva scoperto poco a poco che quel giudizio era stato superficiale. Adesso, nella mensa delle Guardie, la sua attenzione vagava da un viso all’altro, valutando — e non per la prima volta — gli uomini con cui partecipava ogni giorno al servizio ed agli svaghi.
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