Robert Jordan - I fuochi del cielo

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Sorridendo, Lanfear mostrò tanti denti quanto quelli dell’altra donna e anche meno calore. «Perché voi tre avete scelto di scavarvi dei rifugi e garantirvi il potere mentre il resto si combatte a vicenda. E per altri motivi. Vi ho detto che ho tenuto d’occhio Rand al’Thor.»

Ciò che aveva detto di loro era vero. Rahvin preferiva la diplomazia e la manipolazione al conflitto palese, ma non si sarebbe tirato indietro se avesse dovuto combattere apertamente. I mezzi di Sammael erano sempre stati eserciti e conquiste; non si sarebbe avvicinato a Lews Therin, anche se rinato come pastore, fino a quando non fosse stato certo della vittoria. Anche Graendal inseguiva l’idea della conquista, ma i suoi metodi non contemplavano l’uso di soldati, tutto quello che le interessava erano i suoi giocattoli e avanzare di un solo passo alla volta. Apertamente, per essere sicura, poiché i Prescelti consideravano una tal cosa, ma mai facendo il passo più lungo della gamba.

«Sapete che posso controllarlo senza essere vista» continuò Lanfear, «ma voi altri dovete restare nascosti o correre il rischio di essere scoperti. Dobbiamo riportarlo indietro...»

Graendal si protese in avanti interessata e Sammael iniziò ad annuire mentre Lanfear proseguiva. Rahvin aveva le sue riserve. Poteva funzionare. E se non avesse funzionato... In quel caso intravedeva diversi modi per modificare gli eventi a suo vantaggio. Il piano poteva marciare davvero molto bene.

1

Alimentando le scintille

La Ruota del tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò nella vasta foresta chiamata il Bosco di Braem. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Soffiava verso sud ed est, asciutto, sotto un sole d’oro colato. Non era piovuto per molte settimane nella terra sottostante e il caldo dell’estate inoltrata aumentava di giorno in giorno. Su alcuni alberi erano già visibili le foghe marroni e le rocce nude adesso ardevano dove una volta scorrevano dei piccoli ruscelli. In un luogo aperto nel quale l’erba era svanita e rimanevano solo alcuni cespugli rinsecchiti ancorati al suolo con le radici, il vento incominciò a scoprire delle pietre rimaste sepolte a lungo. Erano logorate dalle intemperie e nessun occhio umano le avrebbe riconosciute come i resti di una città ricordata solo nella storia.

Villaggi sparpagliati si stagliavano di fronte al vento attraverso i confini di Andor e sui campi dove i contadini preoccupati arrancavano su solchi inariditi. La foresta era ridotta a radi boschetti quando il vento smise di alzare la polvere per le strade solitarie di un villaggio chiamato le Sorgenti di Kore. Quell’anno le sorgenti erano basse. Qualche cane giaceva affannato nel caldo soffocante e due ragazzini senza camicia correvano, facendo rotolare una vescica imbottita che colpivano con dei bastoni. Non si muoveva nient’altro, tranne il vento, la polvere e l’insegna scricchiolante sopra la porta della locanda di mattoni rossi e con il tetto di paglia, come ogni altro edificio nella strada. Di due piani, era la più alta e larga struttura delle Sorgenti di Kore, una piccola città pulita e ordinata. I cavalli sellati erano legati sul davanti e agitavano appena le code. Il nome inciso sull’insegna era ‘La giustizia della buona regina’.

Battendo le palpebre nella polvere, Min accostò un occhio alla fenditura sulle pareti del riparo. Riusciva a vedere giusto una spalla del soldato davanti alla porta, ma la sua attenzione era tutta concentrata sulla locanda. Avrebbe desiderato che il nome non fosse di così cattivo auspicio. Il giudice, il lord locale, era giunto poco prima, ma non era riuscita a vederlo. Senza dubbio stava ascoltando le accuse dei contadini. Admer Nem, i suoi fratelli, i cugini e tutte le loro mogli erano sembrati a favore di un’impiccagione immediata prima che uno dei dipendenti del lord si facesse vivo. Si chiese quale potesse essere qui la punizione per aver incendiato la fattoria di un uomo, assieme alle mucche da latte. Si era trattato di un incidente, ma non credeva che contasse molto quando tutto era iniziato con uno sconfinamento.

Logain era fuggito nella confusione, abbandonandole — lo aveva fatto, che rimanesse folgorato! — e Min non sapeva se esserne felice o meno. Era stato lui a far perdere i sensi a Nem quando erano stati scoperti proprio prima dell’alba, scaraventando la lanterna dell’uomo fra la paglia. Era colpa sua, se bisognava incolpare qualcuno. A volte però aveva dei problemi a tenere a freno la lingua. Forse era un bene che fosse andato via.

Girandosi per appoggiarsi alla parete si deterse il sudore dalla fronte, ma quello sgorgò di nuovo. L’interno del riparo era soffocante, ma le due compagne non sembravano notarlo. Siuan era sdraiata supina, indossava un abito scuro da cavallo molto simile a quello di Min e fissava il soffitto giocherellando con un filo di paglia. Leane, dalla pelle ramata, slanciata e alta come la maggior parte degli uomini, invece stava cucendosi il vestito. Era stato permesso loro di tenere le bisacce da sella, dopo essere state perquisite alla ricerca di spade, asce o qualsiasi altra cosa che potesse servire a fuggire.

«Qual è la punizione per aver incendiato una fattoria qui in Andor?» chiese Min.

«Se siamo fortunate» rispose Siuan senza muoversi, «qualche cinghiata nella piazza del villaggio, se non siamo così fortunate una vera e propria fustigazione.»

«Luce!» esclamò Min. «Come puoi chiamarla fortuna?»

Siuan rotolò su un fianco e si appoggiò sul gomito. Era una donna robusta, quasi attraente ma non bella e sembrava solo pochi anni più grande di Min; ma in quegli occhi azzurri attenti c’era una forza autoritaria che non apparteneva a una ragazza in attesa del processo rinchiusa in una baracca di campagna. A volte Siuan era incline a dimenticare la propria identità come Logain, forse anche di più. «Quando qualcuno viene preso a cinghiate» proseguì con un tono che invitava l’altra a non essere sciocca, «finisce lì e poi si può andare via. Si sprecherebbe molto meno del nostro tempo rispetto a qualsiasi altra punizione possa venirmi in mente. Molto meno dell’impiccagione direi. Anche se non credo che vi arriveremo, per quanto ricordo delle leggi di Andor.»

Min rise per un momento, l’alternativa era piangere. «Tempo? A giudicare da come stiamo procedendo non abbiamo altro che tempo. Giurerei che siamo già state in qualsiasi villaggio fra qui e Tar Valon e non abbiamo trovato nulla. Non una traccia o una voce. Non credo che vi sia nessuna congrega e adesso siamo a piedi. Da quello che ho sentito Logain ha preso i cavalli. A piedi e rinchiuse in una baracca in attesa la Luce sola sa di cosa!»

«Attenta ai nomi che pronunci» sussurrò irritata Siuan, lanciando un’occhiata significativa verso la rozza porta con la guardia dall’altro lato. «Una lingua veloce può farti cadere nella rete al posto del pesce.»

Min fece una smorfia, in parte perché cominciava a stancarsi dei detti da pescatore tarenese di Siuan e in parte perché l’altra donna aveva ragione. Sino a ora erano riuscite a precedere le notizie imbarazzanti — mortali era una definizione più appropriata — ma alcune riuscivano a viaggiare anche centosessanta chilometri in un giorno. Siuan si faceva chiamare Mara, Leane Amaena e Logain si faceva chiamare Dalyn, dopo che Siuan lo aveva convinto che Guaire era una scelta sciocca. Min invece era sicura che nessuno avrebbe riconosciuto il suo nome, ma Siuan aveva insistito a chiamarla Serenla. Nemmeno Logain conosceva i loro nomi autentici.

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