Robert Sawyer - Mutazione Pericolosa

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Un uomo che ha buone probabilità di morire per una malattia ereditaria del sistema nervoso. Uno scienziato premio Nobel che è forse un ex-torturatore nazista. Una società di assicurazioni interessata ai clienti con difetti genetici. Ce n’è quanto basta per capovolgere il mondo normale di Pierre Tardivel e il suo lavoro al Progetto Genoma Umano. E il figlio che Pierre sta per avere sarà il primo, concreto annuncio dell’incubo biologico... Ritorna Robert J. Sawyer, l’acclamato autore di Starplex, con un romanzo di straordinaria suspense.

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Rapito.

— Fu un progresso stupefacente… e a essere ancor più stupefacente fu che James Watson aveva appena venticinque anni quando lui e Crick dimostrarono che la molecola di DNA assumeva la forma di una doppia elica…

La mattina, dopo una notte passata più sveglio che a dormire, Pierre sedeva sul bordo del letto.

Aveva compiuto diciannove anni ad aprile.

Molti di quelli a rischio di corea di Huntington mostravano sintomi pienamente sviluppati quando si trovavano, diciamo, a trentott’anni. Appena il doppio della sua età attuale.

Così poco tempo.

Eppure…

Eppure, era accaduto così tanto nei diciannove anni passati.

Vaghe prime memorie di baby-sitter e tricicli e biglie ed estati senza fine e Batman in primo passaggio televisivo.

Il nido d’infanzia. Dio, sembrava così lontano. La classe di mademoiselle Renault. Fiochi ricordi delle celebrazioni per il centenario del Canada.

Era stato un Lupetto negli Scout, ma non era mai riuscito a guadagnarsi un emblema di merito.

Due anni di campeggio estivo.

La sua famiglia si era trasferita da Clearpoint a Outrement, e aveva dovuto abituarsi a una nuova scuola.

Si era rotto il braccio giocando a hockey in strada.

E la Crisi d’Ottobre del FLQ, e i suoi genitori che cercavano di spiegare a un ragazzino spaventatissimo cosa significavano tutti i servizi del telegiornale, e perché c’erano truppe nelle strade.

Robert Apollinaire, il suo miglior amico quando aveva dieci anni, si era trasferito a ben venti isolati di distanza, e lui non l’aveva mai più rivisto.

E la pubertà, e tutto ciò che «questa» implicava.

Il clamore quando le Olimpiadi del 1976 si erano tenute a Montreal.

Il suo primo bacio, a un party, facendo il gioco della bottiglia.

Aveva visto Guerre stellari per la prima volta e pensato che fosse il miglior film di tutti i tempi.

La sua prima ragazza, Marie… si domandava dove fosse adesso.

Aveva preso la patente di guida, e sfasciato l’auto di papà due mesi dopo.

Aveva scoperto le magiche parole Je t’aime, e quanto fossero efficaci per infilare la mano sotto una maglietta o camicetta. Per poi apprendere cosa quelle parole significassero realmente, nell’estate del suo diciassettesimo anno, con Danielle. E aveva pianto solo, a un angolo di strada, dopo che lei aveva rotto.

Aveva imparato a bere birra, e poi imparato ad apprezzarne il gusto. Feste. Lavori estivi. C’era stata una rappresentazione teatrale, a scuola, per cui aveva curato le luci. Aveva vinto a un concorso della radio CFCF i biglietti per un’intera stagione delle partite dei Canadiens… che anno era stato quello! Si era trascinato, senza obiettivi, per il liceo. Aveva fatto il reporter sportivo per «L’Informateur», il giornale della scuola. Quella gran zuffa con Roch Lavai… quindici anni d’amicizia finiti in una sera, senza mai più riconciliarsi.

L’attacco di cuore di papà. Pierre aveva pensato che il dolore della sua perdita non sarebbe mai passato, invece sì. Il tempo guarisce tutte le ferite.

«Quasi tutte.»

Tutto ciò in diciannove anni. «Era» in effetti un lungo periodo, era… erano, forse, tutti i bei tempi che si era lasciato alle spalle.

Il professore straordinario, nell’ultima lezione, aveva parlato di James D. Watson. Appena venticinque anni quando aveva scoperto la doppia elica del DNA. E già a trentaquattro, Watson aveva vinto il Premio Nobel.

Pierre sapeva di essere in gamba. Al liceo si era lasciato andare, senza sforzi, perché «poteva» permetterselo. Qualunque fosse l’argomento, non aveva problemi. Studiare? Uno scherzo. Portarsi a casa una pila di libri? Ma va’.

Una vita che poteva essere troncata.

Un Premio Nobel a trentaquattro anni d’età.

Pierre cominciò a vestirsi, mettendosi una canottiera e una camicia.

Sentiva un vuoto nel cuore, un gran senso di perdita.

Ma giunse a rendersi conto, pochi momenti dopo, che non stava rimpiangendo la potenziale perdita del tempo futuro. Era invece il passato sprecato, il tempo trascorso male, le ore sciupate, i giorni senza compiere nulla.

Pierre si tirò su le calze.

Avrebbe fatto fruttare il tempo il più possìbile… il più possibile, ogni minuto.

Pierre Jacques Tardivel «sarebbe» stato ricordato.

Guardò l’orologio.

Non c’era un istante da perdere.

Affatto.

5

Sei anni dopo — Gerusalemme

Il padre di Avi Meyer, Jubas Meyer, era stato fra le cinquanta persone riuscite a fuggire dal campo della morte di Treblinka. Jubas era vissuto per tre anni dopo la fuga, ma era morto prima che Avi nascesse. Durante la sua infanzia a Chicago, dove i suoi genitori si erano stabiliti dopo aver passato qualche tempo in un canopo per rifugiati, Avi aveva risentito della mancanza di suo padre. Ma subito dopo il suo bar mitzvah nel 1960, la madre di Avi gli aveva detto: — Tu sei un uomo adesso, Avi. Devi sapere quel che ha passato tuo padre… quello che ha passato tutta la nostra gente.

E gliel’aveva raccontato. Tutto quanto.

I nazisti.

Treblinka.

Sì, suo padre era sfuggito al campo, ma il fratello e tre sorelle di Jubas erano tutti stati uccisi laggiù, come anche i nonni di Avi, e innumerevoli altre persone imparentate o che conoscevano.

Tutti morti. Spettri.

Ma ora, forse, gli spettri potevano riposare. Avevano preso l’uomo che li aveva tormentati, l’uomo che li aveva torturati, che li aveva gassati a morte.

Ivan il Terribile. Avevano quel bastardo. E ora stava per pagare.

Avi, un tipo con la faccia come quella di un bulldog, era un agente dell’Office of Special Investigations, la divisione del Dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti incaricata di dare la caccia ai criminali di guerra nazisti. Lui e i suoi colleghi dell’osi avevano identificato un operaio di Cleveland di nome John Demjanjuk come Ivan il Terribile.

Oh, Demjanjuk non sembrava più tanto malvagio. Era un ucraino calvo e pacioccone sul finire dei sessanta, con orecchie a sventola e occhi a mandorla dietro occhiali con montatura di corno. E, a dire il vero, non sembrava affatto scaltro come alcuni rapporti avevano descritto Ivan il Terribile. Ma del resto, non era certo il primo individuo a mostrare un declino dell’intelletto col passar dei decenni.

Gli agenti dell’osi avevano mostrato dossier contenenti foto di Demjanjuk e altri ai superstiti di Treblinka. Basandosi sulle loro identificazioni, e su una carta d’identità delle SS ritrovata dai sovietici, gli Stati Uniti avevano revocato la cittadinanza a Demjanjuk nel 1981. Era stato estradato in Israele, dove lo attendeva il processo per l’unico crimine per cui la legge israeliana prevedesse la pena capitale.

L’aula del tribunale nel centro congressi Binyanei Ha’uma di Gerusalemme era grande: effettivamente, era in realtà un teatro affittato apposta per il processo, il più importante dopo quello di Eichmann, in modo che quanti più spettatori possibile potessero vedere come si faceva la storia. Gran parte del pubblico consisteva in superstiti dell’Olocausto e nelle loro famiglie. I sopravvissuti erano in numero sempre più esiguo: dall’estradizione di Demjanjuk, tre di quelli che lo avevano identificato come Ivan il Terribile erano deceduti.

Il banco dei giudici era sul palcoscenico: tre poltrone di cuoio dall’alto schienale, con quella al centro ancora più alta delle altre due. Su ogni lato c’era una bandiera israeliana azzurra e bianca. Sulla sinistra del palcoscenico, il tavolo del pubblico ministero e il banco dei testimoni; sulla destra, il tavolo degli avvocati difensori e, proprio dietro di loro, il banco degli imputati dove Demjanjuk, con indosso una camicia dal collo aperto e una giacca blu sportiva, sedeva col suo interprete e una guardia. Tutto l’arredamento era di legno chiaro lucido. Il palcoscenico era rialzato di un metro abbondante sopra i posti riservati al pubblico generico. In fondo al teatro si allineavano le telecamere; il processo veniva trasmesso in diretta.

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