Stephen Baxter - Il secondo viaggio

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Il Viaggiatore del Tempo nel grande capolavoro di H.G. Wells “La macchina del tempo” pensa con rimpianto a “come sia stato breve il sogno dell’intelletto umano”. Ma Stephen Baxter sa quello che Wells non poteva sapere, cioè proiettandosi nel tempo il Viaggiatore ha cambiato il futuro e sarà destinato a cambiarlo ancora. Svegliandosi nella sua casa di Richmond, il Viaggiatore non riesce a soffocare i rimorsi. Ha abbandonato la bella e indifesa Weena, del mite popolo degli Eloi, alle brame cannibalesche dei Morlock, la razza umana degenerata da cui è stato costretto a fuggire. Decide cosi di ripartire prontamente per un nuovo viaggio nell’anno 802.701 d.C., ma scopre con sgomento di essere entrato in un altro futuro. Approda infatti nell’anno 657.208 all’interno di una sfera di Dyson costruita da una razza di Morlock infinitamente più evoluta: il suo viaggio ha inevitabilmente innescato ramificazioni temporali che si aprono su nuovi universi paralleli. Non rimane quindi che tornare nel passato, affrontare una versione di se stesso più giovane e impedire l’invenzione della macchina del tempo. Ma non è cosi semplice, perché ecco apparire un’enorme e misterioso congegno, costruito per difendere a tutti i costi la macchina del tempo, che nel frattempo è diventata un’irrinunciabile arma segreta in una guerra futura... Ormai è chiaro, il destino del Viaggiatore non è solo quello di affrontare una sequela di avventure mozzafiato, ma di risolvere una catena di paradossi che si stanno moltiplicando attorno a lui. E soprattutto non ha abbandonato l’idea di ritrovare e salvare la sua Weena. Stephen Baxter reinterpreta le idee di Wells alla luce delle più recenti scoperte sulla natura dello spazio, del tempo e della meccanica quantistica, ma soprattutto, con estrema fedeltà e vigore narrativo, riscopre e rilancia verso nuovi orizzonti l’emozione che La macchina del tempo aveva saputo regalare.

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Mi ci ero recato con Weena alla ricerca di armi e di altri strumenti con cui combattere i Morlock. Se ben ricordavo, anzi, l’altro me stesso doveva essere impegnato proprio in quel momento a frugare all’interno di quelle levigate mura verdi.

A una decina di miglia, stava come una barriera tra me e il Palazzo una foresta cupa, larga almeno un miglio, che persino alla luce del giorno appariva fosca e sinistra. Con Weena, l’avevo attraversata senza pericolo durante il giorno, all’andata. Al ritorno, invece, quella notte stessa, mi sarei lasciato sopraffare dall’impazienza e dalla fatica: deciso a ritornare nel più breve tempo possibile alla Sfinge Bianca per recuperare la macchina, avrei riattraversato la foresta durante la notte, mi sarei addormentato, e mi sarei lasciato sorprendere dai Morlock, che avrebbero rapito Weena.

Sapevo di essere stato fortunato a sopravvivere a quel pericolo in cui mi ero sventatamente cacciato. Quanto alla povera Weena…

Comunque, reagii alla vergogna che provavo rammentando a me stesso che ero ritornato appositamente per rimediare.

Avevo il tempo di raggiungere la foresta prima che annottasse. Ero disarmato, naturalmente, tuttavia non mi proponevo di combattere i Morlock: non avevo più nessuna intenzione di ricorrere alla violenza nei loro confronti. Più semplicemente, progettavo di liberare Weena, ed ero persuaso che, per riuscirvi, non mi sarebbero occorse armi più potenti dell’intelletto e dei pugni.

2

Una passeggiata

La macchina del tempo sembrava molto esposta, là, sul versante della collina, con l’ottone e il nichel scintillanti, perciò decisi di nasconderla, anche se non intendevo servirmene più. Con fatica, giacché era ingombrante, la trascinai in un boschetto vicino, lasciando solchi profondi nel prato, poi la coprii di fronde.

Tutto sudato, riposai per qualche minuto. Infine, m’incamminai risolutamente giù per il versante della collina, in direzione di Banstead.

Non avevo percorso più di cento metri allorché udii alcune voci. Benché fosse ancora giorno, temetti per un attimo che si trattasse di Morlock.

Non tardai però a riconoscere voci del tutto umane, che parlavano nella lingua semplice e musicale caratteristica degli Eloi. Da un bosco, percorrendo un sentiero che conduceva alla Sfinge Bianca, sbucarono infatti cinque o sei Eloi. Ancora una volta rimasi stupito dalla loro statura bassa e dalla loro corporatura delicata: sia gli uomini sia le donne sembravano bambini della mia epoca. Erano abbigliati con semplici tuniche purpuree e sandali.

Fui subito colpito dalla somiglianza con il mio primo arrivo nel futuro. In circostanze simili, ne avevo incontrati alcuni, che mi avevano avvicinato con curiosità, senza paura, ridendo e chiacchierando.

In quella seconda occasione, invece, avanzarono con circospezione, evidentemente intenzionati ad evitarmi. Aprii le mani e sorrisi per mostrare che non intendevo nuocere loro in alcun modo, pur sapendo che il loro atteggiamento era giustamente cambiato a causa del comportamento volubile e aggressivo dell’altro me stesso, soprattutto dopo la scomparsa della macchina del tempo, che gli aveva fatto perdere la testa.

Gli Eloi avevano dunque tutte le ragioni per diffidare di me. Mi evitarono, senza che io cercassi di avvicinarli, e salirono il versante della collina in direzione del vialetto di rododendri. Non appena mi ebbero perso di vista, ripresero a conversare nella loro lingua musicale.

Nell’attraversare la campagna verso la foresta, vidi ovunque i pozzi che conducevano al mondo sotterraneo dei Morlock. Sapevo, inoltre, che se mi fossi avvicinato abbastanza ad uno di essi avrei sentito il rumore ritmico e implacabile dei loro macchinari enormi.

Era molto caldo, sebbene fosse già tardo pomeriggio: il sudore mi bagnò la fronte e il petto; il respiro mi divenne affannoso.

Man mano che mi addentravo in quel mondo, i miei sentimenti si ridestarono. Pur essendo un essere limitato, Weena era stata l’unica persona, nel mondo dell’802.701, a manifestare affetto nei miei confronti, perciò la sua perdita mi aveva afflitto. Nonostante questo, allorché avevo raccontato la mia avventura ai miei amici, alla luce e al calore del mio focolare nel 1891, quella sofferenza era sbiadita a una pallida traccia di se stessa, e Weena era diventata del tutto irreale, come il ricordo di un sogno.

Ebbene, essere ritornato in quel mondo, calpestarne di nuovo il suolo, ravvivò in me il dolore, come se non mi avesse mai abbandonato, infondendomi energia ad ogni passo.

Poco a poco, si risvegliò in me anche la fame. Mi resi conto, così, che non ricordavo quando avessi mangiato per l’ultima volta: doveva essere stato prima di abbandonare con Nebogipfel l’epoca della Terra Bianca. D’altronde, potevo forse dire che il corpo in cui dimoravo non aveva mai consumato alcun tipo di cibo, se davvero era stato ricostruito dagli Osservatori come aveva suggerito Nebogipfel. A dispetto delle sottigliezze filosofiche, comunque, la fame cominciò a straziarmi lo stomaco, e intanto il caldo mi spossò. Vedendo uno dei grandi edifici di pietra grigia lavorata che contenevano le sale in cui gli Eloi consumavano i loro pasti, deviai dal mio tragitto.

Varcata la soglia di un portale sovrastato da un arco scolpito, tutto consunto e diroccato, mi trovai in una sala simile a quella che avevo visitato in precedenza, con i tendaggi scuri e il pavimento di blocchi di metallo duro e bianco, consumato dai passi dei morbidi piedi d’innumerevoli generazioni di Eloi. Intorno ai tavoli di pietra su cui era ammucchiata la frutta, gli Eloi, radunati a gruppetti nelle loro belle tuniche, mangiavano e ciarlavano come tanti uccellini in gabbia.

Rimasi immobile. Consapevole che la mia sporca uniforme tropicale era del tutto fuori luogo in quel mondo di bellezza luminosa, pensai che gli Osservatori avrebbero potuto fornirmi un abbigliamento più elegante. Dapprima gli Eloi si avvicinarono, quindi mi si affollarono intorno e mi toccarono con le loro manine morbide come tentacoli, esaminando i miei indumenti. Benché avessero le orecchie minute, la bocca piccola e il mento appuntito che erano peculiari della loro specie, sembravano appartenere a una razza diversa da quella che abitava nella zona della Sfinge Bianca. Non mi conoscevano, dunque non mi temevano.

Giacché ero tornato per soccorrere una loro simile, e non per comportarmi nel modo barbaro che aveva caratterizzato negativamente la mia prima visita, mi lasciai esaminare di buon grado, senza opporre resistenza.

Seguito ovunque da un gruppetto di Eloi, mi avvicinai a un tavolo e cominciai a divorare fragole gigantesche. Non tardai a trovare i fratti dal pericarpo triedrico e dalla polpa farinosa che erano stati i miei preferiti: ne presi una quantità che mi parve sufficiente e andai a mangiare in un angolo semibuio, circondato da una piccola folla di Eloi curiosi.

Sorrisi cordialmente, poi, cercando di rammentare quel poco che avevo imparato della loro lingua semplice, iniziai a parlare. Nella semioscurità, gli Eloi avvicinarono i loro visetti, ad occhi sgranati, le rosse labbra dischiuse, come bambini. Allora mi rilassai. La semplice umanità dell’incontro m’incantò, dopo tutte le stranezze inumane che avevo dovuto patire in precedenza. Sapevo che gli Eloi non erano umani, anzi, a modo loro erano tanto alieni quanto i Morlock, tuttavia erano abbastanza simili alla mia specie.

Senza accorgermene, chiusi gli occhi.

Quando mi destai, di soprassalto, scoprii che era ormai buio. Gli occhi calmi e per nulla interrogativi dei pochi Eloi rimasti accanto a me sembrarono scintillare nell’oscurità.

In preda al panico, balzai in piedi, lasciando cadere i pericarpi e i fiori con cui mi avevano ornato i giocosi Eloi. A tentoni, attraversai la sala piena di personcine che dormivano a gruppetti, stese sul pavimento metallico.

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