Jaspin sbirciò fuori in mezzo alla folla tumultuosa, fradicia di pioggia. Adesso vi regnava un autentico isterismo. Li sentiva gridare: — Papamacer! Papamacer! — Ma nessuno andava in aiuto del Senhor. Gesù, pensò Jaspin, dov’è il Nucleo Interno? Devono pur vedere quello che sta succedendo. Perché non vengono ad aiutare il Senhor? Poi si rese conto che era impossibile muoversi per chiunque si trovasse intorno all’autobus, tanto erano schiacciati gli uni addosso agli altri. Un reticolato umano a maglie fittissime.
Allora tocca a me, si disse Jaspin.
Sollevò la statua di Maguali-ga come un randello e manovrò per trovare un varco, cercando di portarsi in posizione per colpire il braccio che reggeva la lancia. Ma i due si agitavano in maniera troppo incontrollabile perché lui potesse riuscire a colpire con precisione l’arma.
Forse adesso… adesso…
Jaspin vibrò la statua con tutte le sue forze. Calò giù la mazzata, ma sul braccio sbagliato, quello con cui il grattatore cercava di strappare il pettorale al Senhor Papamacer. Il grattatore cacciò un forte grugnito e lasciò andare il Senhor, che venne sbattuto dal suo stesso slancio contro la portiera aperta dell’autobus. Jaspin cercò di spingerlo di nuovo dentro, ma con suo stupore il Senhor Papamacer scosse la testa e si precipitò in avanti, afferrando il grattatore per entrambe le spalle, costringendolo a girarsi, scuotendolo furiosamente, tempestandolo di quelle che parevano oscenità brasiliane. Tutta la mostruosa intensità dell’anima del Senhor Papamacer si stava riversando fuori in un frenetico attacco contro quel lurido estraneo che aveva osato violare il suo sacro santuario. Il grattatore, sbattendo gli occhi e con la bocca spalancata, pareva non sapesse cosa fare davanti a un’aggressione così folle.
Un paio di membri del Nucleo Interno si stavano facendo largo in mezzo alla folla. Jaspin li vide più in basso, a dieci, quindici metri dai gradini dell’autobus.
Anche il grattatore li vide. Sollevò la lancia e con un colpo improvviso e disperato la premette contro il petto del Senhor Papamacer. Vi fu un altro sbuffo di luce azzurra, e il Senhor, con le braccia e le gambe scosse dalle convulsioni, schizzò in alto nell’aria e ricadde giù, abbattendosi pesantemente sul terreno. Il grattatore, senza fermarsi, balzò giù accanto a lui, fece un ultimo, non riuscito tentativo di strappargli il pettorale, poi sfrecciò via sulla sinistra, scomparendo tra la folla proprio mentre Bacalhau e Johnny Espingarda arrivavano di corsa.
Bacalhau si chinò accanto al Senhor Papamacer. Con mani tremanti toccò la guancia del Senhor, la fronte, la gola, poi sollevò lo sguardo, e il suo volto aveva l’aspetto di qualcuno che avesse visto la fine del mondo.
— È morto! — gridò Bacalhau, con voce tonante. — È morto, il Senhor!
E poi ogni cosa impazzì.
Elszabet si rese conto che in qualche modo aveva attraversato il tratto che separava il dormitorio dalla palestra, anche se non ricordava di averlo fatto. Adesso, si trovava in piedi proprio sull’orlo del piccolo giardino di rose, appena fuori della palestra. Intorpidita, osservava incredula la folla dei tumbondé che demoliva il Centro.
Tutto era molto simile a un sogno. Non un sogno spaziale, ma il consueto sogno ansioso, pensò, del tipo «primo giorno di scuola», e non sapete in quale aula si svolga il corso al quale vi siete iscritti, oppure quello in cui cercate di passare da un lato all’altro di una stanza affollata per parlare a qualcuno d’importante, e l’aria è densa come la melassa, e voi nuotate e nuotate e nuotate e non arrivate da nessuna parte.
Quella gente, quei cultisti, avrebbero distrutto ogni cosa. E non c’era assolutamente niente che lei potesse fare in proposito. Lei sapeva ciò che invece avrebbe dovuto fare: radunare i pazienti, portarli in un luogo sicuro, sempre che esistesse ancora qualcosa del genere. E trovare Tom prima che attuasse qualche altra Traversata. Ma era paralizzata là dove si trovava. Si sentiva pietrificata. Aveva tentato di proteggere il Centro, e aveva fallito, e adesso pareva fosse troppo tardi per riuscire a fare qualcosa. Salvo che starsene là immobile a guardare.
Adesso le cose là fuori stavano impazzendo sul serio.
Era stato già abbastanza brutto all’inizio, quando si erano semplicemente riversati dentro con le loro auto e i loro furgoni parcheggiando dappertutto, tamponandosi a vicenda con grande stridio di metallo schiacciato, e poi erano scesi e si erano messi a girare li intorno fino a quando non c’era più stato posto perché qualcuno riuscisse ancora a muoversi. Ma adesso era molto peggio: adesso si era passati ad una fase completamente diversa e più frenetica.
Il vero guaio era cominciato dopo che quell’ometto nero con quello strano costume era stato ucciso sui gradini dell’autobus multicolore che si trovava proprio nel mezzo di ogni cosa. Elszabet decise che doveva essere stato il loro capo, il loro profeta. Aveva visto tutto proprio mentre usciva dal dormitorio per andare a cercare Tom. L’ometto nero e quell’altro, il teppista dai capelli rossi che l’aveva avvicinata in precedenza, erano sbucati dall’autobus e si erano messi a lottare subito fuori della portiera. Il terzo uomo uscito dall’autobus che agitava tutt’intorno la pesante statua di legno, cercando di colpire con essa il grattatore… E poi il grattatore che fulminava il capo del culto con la sua lancia… era stato allora che le cose erano diventate davvero forsennate.
Nel loro dolore i tumbondé stavano facendo a pezzi tutto quanto. Andavano avanti e indietro a ondate come la marea d’un oceano umano, schiantando le capanne e svellendole dalle loro fondamenta, strappando dal suolo cespugli e arbusti, rovesciando i loro stessi autobus. La follia si stava autoalimentando; i tumultuanti pareva cercassero di superarsi a vicenda nelle loro dimostrazioni di rabbia e di dolore, e pareva che anche quelli che non avevano nessuna idea di cosa avesse scatenato quell’accesso di violenza stessero unendosi alla furia distruttrice.
Dal punto favorevole in cui si trovava ai margini del Centro, Elszabet aveva modo di vedere quasi ogni cosa che stava accadendo. Pareva che l’edificio del quartier generale fosse in fiamme. Una colonna di fumo nero s’innalzava da esso in mezzo alla pioggia. In basso, sul lato opposto, le capanne della mondatura venivano fracassate e ridotte in schegge… tutte quelle apparecchiature complesse e costose, rifletté con tristezza Elszabet, ogni cosa tanto minuziosamente misurata e calibrata, e tutto l’archivio, tutta la documentazione… e più oltre riusciva appena a distinguere le capanne del personale, la sua stessa capanna, annidate in mezzo al bosco, la gente che sciamava dappertutto, scagliando oggetti fuori dalle finestre, sfondando le pareti a calci, strappando dal suolo perfino le felci sul fianco della collina nelle immediate vicinanze. I suoi libri, i suoi cubi, le sue registrazioni, il piccolo diario che a volte teneva… immaginò che ormai ogni cosa giacesse là fuori, in mezzo al fango, calpestata sotto i piedi di quella marea umana…
Non c’era niente che potesse fare, se non guardare. Con spettrale freddezza ispezionò l’intera scena da nord a sud, da sud a nord, stranamente tranquilla, paralizzata dallo shock e dalla disperazione, osservando… osservando.
Poi vide Tom. Era Tom quello laggiù, sì, proprio lui. Comparso dal nulla un po’ in alto, lungo il fianco della collina: stava passando davanti al lato più lontano del dormitorio, girando poi intorno ad esso sulla sinistra. Giù, verso il colmo di quella follia.
Come chiunque altro era chiazzato di fango e fradicio fin dentro la pelle, con i vestiti appiccicati al corpo scarno e ossuto. Eppure appariva del tutto indifferente, invulnerabile alle intemperie, come se fosse circondato da un’invisibile sfera protettiva. Camminava lentamente, quasi come se niente fosse. C’era una specie di seguito intorno a lui: Padre Christie, Alleluia, April, Tomás Menendez. Si tenevano tutti per mano come se stessero andando a un allegro pic nic nella foresta, e parevano tutti straordinariamente sereni.
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