Robert Silverberg - Il sogno del tecnarca

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Il Tecnarca McKenzie ha fretta, perché vuol gli uomini sparsi per tutto l’Universo durante il periodo del suo governo. Per questo lo irritano tanto le notizie portate dall’equipaggio dell’astronave che ha compiuto felicemente un viaggio di prova sperimentando la nuova propulsione. Gli uomini non sono i soli esseri intelligenti. Gli astronauti hanno notato tracce di attività su uno dei pianeti scelti da Tecnarca per la colonizzazione terrestre. Un’altra civiltà vi sta installando una sua colonia. Il Tecnarca McKenzie ha fretta di definire la questione, perciò bisogna mettersi in contatto con gli altri, far loro capire chi sono i terrestri, ed accordarsi perché le sfere di influenza delle due civiltà non vengano mai a conflitto, e si dividano amichevolmente l’Universo. E l’astronave appena tornata dal difficile viaggio deve ripartire subito, con lo stesso equipaggio, che è stanco ma è l’unico di cui il Tecnarca si fidi. Con l’equipaggio viaggeranno i cinque uomini migliori della Terra, ognuno eccellente nel proprio campo, per negoziare con l’altra razza e concludere secondo i desideri del Tecnarca il quale, avendo già rinunciato a una parte del suo sogno, non intende rinunciare anche alla metà dell’universo che gli è rimasta. Ma le cose non vanno come stabilito, e il Tecnarca dovrà mettersi a segnare il passo insieme a tutta la razza umana, perché la spedizione terrestre fa una scoperta che costringerà McKenzie a rinunciare ai suoi sogni.

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Qualche tempo dopo tornò faticosamente alla realtà, e infine fu completamente desto. Un’occhiata all’orologio della cabina lo informò che restavano solo quattro ore di viaggio prima della transizione, e che perciò lui aveva dormito dodici ore filate. Ne fu sorpreso. Non credeva di essere così stanco, di avere bisogno di una dormita così lunga e ininterrotta.

Si guardò attorno. Dominici dormiva della grossa, con gli occhi chiusi, la bocca contorta in un ghigno. Si girava e si rigirava nel sonno. Evidentemente stava facendo un brutto sogno.

Accanto a lui, Stone sedeva immobile fissando lo spettacolo monotono offertogli dall’oblò. Accorgendosi che Bernard si era svegliato, Stone si voltò e gli lanciò un sorriso fuggevole e forzato, poi riportò la sua attenzione sullo schermo.

Solo Havig sembrava in pace con se stesso e con l’ambiente misterioso che lo circondava. Il gigante se ne stava comodamente appoggiato allo schienale, con le gambe stese in atteggiamento di riposo e distensione. Un libro aperto era posato sulle sue ginocchia. Un libro di preghiere probabilmente, pensò Bernard. Il Neopuritano voltava le pagine lentamente, approvando col capo, sorridendo di tanto in tanto tra sé. Non s’accorgeva di niente e di nessuno. La tranquillità imperturbabile di quell’uomo irritava vagamente Bernard.

Bernard si sforzò di non pensare ai suoi compagni di viaggio e alla tensione che li divideva, e di ponderare invece sull’enigmatica natura degli esseri che dovevano contattare.

Aveva visto le loro fotografie, tridimensionali e a colori, e perciò aveva se non altro un’idea abbastanza precisa di cosa aspettarsi materialmente. Tuttavia si sentiva molto incerto all’idea dell’incontro da affrontare. Sarebbe stato possibile stabilire un contatto, comunicare sia pure a forza di gesti? E se fosse stato possibile comunicare verbalmente, si sarebbe giunti a un’intesa? Oppure la civiltà umana era destinata a essere spazzata via da un conflitto interstellare, che avrebbe annullato i tanti secoli di pace imposti dall’Arconato?

Il sorgere dell’oligarchia, ricordò Bernard, aveva messo fine alla confusione e ai dubbi degli Anni Incubo. Ma se adesso quegli esseri avessero rifiutato di trattare e di negoziare pacificamente con loro? A cosa sarebbe servita, in questo caso, la forza dell’Arconato?

Non c’era risposta a questi pensieri. Bernard si sforzò di concentrarsi nella lettura. Le ore scorrevano alla meno peggio, e finalmente il gong risuonò di nuovo, come se volesse annunciare una apocalisse.

I rintocchi del gong svanirono. La transizione avvenne.

Lo schermo s’illuminò all’improvviso, ritornò alla vita. Nuove costellazioni: nuovi accecanti agglomerati di stelle, e forse, tra tante, un puntolino corrispondeva al Sole della Terra.

E adesso, sospeso dinanzi a loro come una palla incandescente, c’era un bel sole giallo-oro oscurato a tratti dalle ombre dei pianeti in orbita attorno al suo disco infuocato.

5

L’astronave si lanciò «all’ingiù» tagliando attraverso il piano ellittico per cercare l’orbita del quarto tra gli undici mondi di quel sistema. Assumendo un orbita di osservazione a mille chilometri al di sopra del pianeta, la VUL-XV la percorse quattro volte prima di scorgere, la zona in cui si erano acquartierati gli alieni.

Era nella parte in ombra del pianeta. L’ombra della notte. Lo spicchio luminoso che andava allargandosi, fugando le tenebre del pianeta roteante, annunciava che nella zona degli esseri sconosciuti tra non molto avrebbe albeggiato.

Nella cabina posteriore, Martin Bernard e gli altri parlamentari erano legati sulle cuccette, protetti contro l’urto dell’atterraggio, e contavano i minuti via via che la VUL-XV scendeva in una spirale sempre più stretta verso l’oscurità sottostante. Bernard si sentiva stranamente indifeso mentre l’astronave compiva le manovre per l’atterraggio. Sono qui si disse, immobilizzato su un materasso come un nascituro in un grembo in attesa di venire al mondo. E altrettanto incapace di fare atterrare l’astronave, che un nascituro di venire al mondo da sé e tagliare il cordone ombelicale.

Una strana nausea lo assalì. La sua vita, la vita di tutti, era nelle mani di cinque uomini stanchi e con i nervi a pezzi. Un piccolo errore nei calcoli di uno di loro, e l’astronave sarebbe andata a schiantarsi su un pianeta senza nome, alla velocità di diecimila chilometri al secondo. Oppure poteva mancare il pianeta, e allora avrebbero dovuto ricominciare da capo quelle manovre snervanti. Bernard cercò di girare la testa fino a incontrare gli occhi di Stone. La faccia grassoccia del diplomatico era pallidissima e madida di sudore. Ma Stone si sforzò ugualmente di sorridere.

«Non mi riesce di apprezzare questi voli spaziali» disse Bernard. «E voi?»

«Ah, quanto rimpiango i nostri transmat» mormorò Stone. «Ma questo viaggio non contempla nessuna forma di libera scelta, di libero arbitrio. Non da parte nostra per lo meno.»

«Credo propio di no» ammise Bernard. «In realtà non abbiamo nessuna possibilità di scelta.»

Ritornò silenzioso, perché quelle parole gli avevano rammentato una volta di più che un essere umano ha, in fondo, possibilità di scelta limitatissime. Quella verità deterministica gli era stata inculcata fin dai tempi dell’università, quando per la prima volta si era imbattuto nella serie maledettamente assiomatica delle equazioni sociometriche, che riguardavano quasi tutte le caratteristiche e gli schemi di condotta umani. Non c’è quasi mai scelta, in realtà. Siamo prigionieri della… be’, chiamiamola necessità, visto che manca un termine più esatto. Le uniche scelte che possiamo effettuare sono di natura irrilevante, e forse non effettuiamo nemmeno quelle.

L’astronave penetrò nell’atmosfera. L’urto fu considerevole. Bernard benediceva la cuccetta che lo riparava dai colpi. Non si era mai reso conto che un viaggio per astronave potesse essere così scomodo e incerto. Con il transmat tutto era rapido e sicuro: si entrava, si usciva, e ci si trovava a destinazione. Niente di tutto quel faticoso alternarsi di accelerazione e decelerazione, di azioni e reazioni uguali e contrarie.

Sorrise, meditando su quanto poco sapesse in realtà a proposito della fisica spaziale. Lui, che aveva passato la luna di miele su un ameno pianeta del sistema di Sirio, che aveva trascorso le vacanze su pianeti dell’orbita di Beta Centauro, Bellatrix, ed Eta Orsa Maggiore, ne sapeva, sulle leggi newtoniane, meno di uno scolaretto che costruiva un modellino spaziale. Colpa del transmat pensò. Perché preoccuparsi di come funziona un razzo quando basta muovere un passo entro quella fresca luminosità verdastra per trovarsi a quattrocento anni-luce da casa?

Bernard sbriciò il pianeta che adesso ingigantiva sullo schermo televisivo. Ormai erano troppo vicini per vederlo come una sfera. Si era spaventosamente appiattito, e quasi un terzo della sua area usciva dall’angolo visivo dello schermo.

Quando la VUL-XV nelle sue orbite di avvicinamento, sfrecciava verso la parte illuminata, Bernard coglieva la visione di grandi continenti che giacevano su mari verdazzurri come fette di carne su un tavolo. Tutto era immobile, perfino i lievi cirri di nuvole sottostanti, e le scure zone di tempesta. Poi l’astronave si tuffava di nuovo nella notte, e allora era possibile intravedere solo forme indistinte.

Ecco, adesso c’era di nuovo la zona luce, e si potevano discernere i filamenti vividi dei fiumi maggiori. Un vasto corso d’acqua pareva attraversare diagonalmente uno dei continenti, aprendo un canale da nordest a sudovest, e alimentato da centinaia di corsi più piccoli. All’estremo ovest e a nord, catene di montagne si levavano come gibbosità accartocciate. La maggior parte del continente era di un verde pallido, con tonalità più scure verso il nord e negli altipiani.

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