Anne McCaffrey - Volo di drago

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La trilogia dei «Dragonieri di Pern», di cui «Volo di Drago» è la prima parte, è uno dei più interessanti cicli narrativi che la fantascienza ha prodotto in questi ultimi anni nel suo sforzo di rinnovamento interno, tematico e stilistico; è il tentativo ad ampio respiro di creare «ex novo» una mitologia complessa e coordinata, che non sia un semplice adattamento di mitologie «terrestri».
Esso è dovuto ad un nome nuovo, lanciato da John Campbell sulle pagine di «Analog», Anne McCaffrey, che si rivela scrittrice sensibile, originale e dalle notevoli doti letterarie. Sia i lettori che i critici statunitensi hanno testimoniato illoro apprezzamento per quest’opera, i cui diversi capitoli sono apparsi in più riprese sulle riviste di Campbell: i primi assegnando il Premio Hugo 1968 per il miglior romanzo breve alla parte iniziale del romanzo; i secondi il Premio Nebula 1969 per la stessa categoria all’ultima parte di esso. Anne McCaffrey è stata così la prima donna a vincere i due massimi premi fantascientifici americani.

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«Presto, donna, il parto di Dama Gemma è prematuro,» disse aggrottando la fronte preoccupato. Con un gesto imperioso indicò l’ingresso della Fortezza interna. L’afferrò per la spalla e la condusse verso i gradini, nonostante la resistenza della donna, mentre Lessa la tirava per l’altro braccio.

Quando giunsero alla scala, l’uomo lasciò la presa, accennando a Lessa di scortare la levatrice fino a destinazione. Nell’attimo in cui giunsero alla massiccia porta interna, Lessa si avvide che il dragoniere stava fissando intento la sua mano, posata sulla spalla della levatrice. Anche lei la guardò, cautamente, e la vide come se appartenesse ad una estranea… le dita lunghe, eleganti nonostante la sporcizia e le unghie spezzate… una mano piccola, dalle ossa delicate, atteggiata con grazia nonostante la convulsività della stretta. Subito si affrettò a sfuocarla.

Dama Gemma era in preda al travaglio, e le cose non andavano bene. Quando Lessa cercò di lasciare la stanza, la levatrice le lanciò uno sguardo atterrito: nonostante la sua riluttanza, decise di rimanere. Era evidente che la presenza delle altre dame era inutile. Erano tutte raccolte da un lato dell’alto letto: si torcevano le mani e parlavano in toni alti e striduli. Toccò a Lessa e alla levatrice togliere a Gemma le vesti, adagiarla meglio e tenerle le mani durante le contrazioni.

Dal volto della partoriente era svanita quasi ogni traccia di bellezza. Sudava profusamente, e la sua carnagione aveva assunto una sfumatura grigiastra. Il respiro era secco, raschiante. si mordeva le labbra per non gridare.

«Non va affatto bene,» mormorò sottovoce la levatrice. «Ehi, tu. là, smettila di piagnucolare,» ordinò, girandosi verso una dama. Aveva perduto di colpo tutta la sua indecisione: l’importanza del suo compito le conferiva un’autorità temporanea anche sulle donne d’alto rango. «Portami dell’acqua calda. Passami quei panni. Trova qualcosa di caldo per il bambino. Se nasce vivo, bisognerà tenerlo al riparo dal freddo e dalle correnti d’aria.»

Rassicurate da quel tono tirannico, le donne smisero di gemere e si affrettarono ad obbedirle.

Se sopravvive. Quelle parole echeggiarono nella mente di Lessa. Sopravvive per diventare Signore di Ruatha. Uno del sangue di Fax? Non era stata quella la sua intenzione, per quanto…

Dama Gemma cercò, alla cieca, le mani di Lessa. Involontariamente, lei reagì offrendole tutto il conforto che poteva darle una stretta ben salda.

«Perde troppo sangue,» mormorò la levatrice. «Altri panni.»

Le donne ripresero a gemere, lanciando gridolini di paura e di protesta.

«Non avrebbe dovuto fare un viaggio tanto lungo.»

«Moriranno tutti e due.»

«Oh! Perde troppo sangue.»

Troppo sangue , pensò Lessa. Io non ho niente contro di lei. E il bambino è arrivato troppo presto. Morirà. Abbassò lo sguardo su quel volto sfigurato, sul labbro inferiore macchiato di sangue. Se non grida adesso, perché ha gridato prima? Lessa si sentì invadere dal furore. Quella donna, per qualche ragione sconosciuta, aveva volutamente distratto Fax e F’lar nel momento decisivo. Strinse le mani di Gemma con tanta forza che quasi gliele stritolò.

Quel dolore inatteso scosse Gemma dalla breve tregua tra una contrazione e l’altra, che ormai l’afferravano a intervalli sempre più brevi. Sbatté le palpebre per scuoterne le gocce di sudore, e mise a fuoco lo sguardo, disperatamente, sul volto di Lessa.

«Che cosa ti ho fatto» ansimò.

«Cosa mi hai fatto? Avevo quasi in pugno Ruatha, quando tu hai lanciato quel falso grido,» disse Lessa, piegando la testa in modo che neppure la levatrice, ai piedi del letto, potesse udirla. Era infuriata al punto di dimenticare la discrezione: ma non aveva importanza, perché quella donna stava per morire.

Dama Gemma spalancò gli occhi.

«Ma… il dragoniere… Fax non deve uccidere il dragoniere. Ci sono così pochi cavalieri bronzei. Sono tutti indispensabili. E le vecchie storie… la stella… la stella…» Non poté continuare, sopraffatta da una contrazione violenta. I pesanti anelli che le ornavano le dita affondarono nelle mani di Lessa, mentre lei si afferrava alla giovane donna.

«Che vuoi dire?» domandò quest’ultima, in un bisbiglio rauco.

Ma la sofferenza della donna era così intensa che quasi non riusciva a respirare. Gli occhi sembravano sul punto di schizzare dalle orbite. Per quanto fosse diventata inaccessibile a qualunque sentimento che non fosse la vendetta, Lessa si sentì sospinta dall’istinto femminile di alleviare le ultime sofferenze di quella donna. Comunque, le parole di Dama Gemma le riecheggiavano nella mente. La donna, quindi, non aveva cercato di proteggere Fax, ma il dragoniere. La stella? Intendeva alludere alla Stella Rossa? Quali vecchie storie?

La levatrice teneva entrambe le mani sul ventre di Gemma, e premeva cantilenando consigli che la partoriente, straziata dai dolori, non ascoltava. Il corpo sussultò, convulsamente, sollevandosi dal letto. Mentre Lessa tentava di sostenerla, Dama Gemma aprì gli occhi con un’espressione di incredulo sollievo. Crollò tra le braccia di Lessa e restò immobile.

«È morta!» strillò una delle donne, e uscì gridando dalla stanza. La sua voce riecheggiò nei corridoi di roccia. «Morta… orta… orta…aaa…» Le altre donne, stordite, sembravano pietrificate.

Lessa distese sul letto il corpo di Dama Gemma, fissando sbigottita il sorriso stranamente trionfante dipinto sul volto della donna. Si ritrasse nell’ombra, molto più sconvolta di tutte le altre. Benché non avesse mai esitato a compiere qualsiasi cosa, pur di ostacolare Fax o di mandare in rovina Ruatha, adesso tremava per il rimorso. Nella sua decisione fanatica, aveva dimenticato che potevano esservi altri a nutrire odio per Fax. Dama Gemma era una di loro, e aveva sofferto umiliazioni e indegnità anche più gravi di lei. Eppure Lessa l’aveva odiata, aveva riversato odio su una donna che avrebbe meritato il suo rispetto e il suo aiuto, non la sua condanna.

Lessa scosse il capo per disperdere quel senso di tragedia e di repulsione per se stessa che minacciava di sopraffarla. Non aveva tempo per il rimpianto e la contrizione. Non in quel momento. Non quando, provocando la morte di Fax, poteva vendicare non solo i torti subiti da lei, ma anche quelli subiti da Gemma.

E ne aveva la passibilità. Il bambino… sì, il bambino. Avrebbe detto che era vivo. Che era maschio. Il dragoniere sarebbe stato costretto a battersi: aveva udito e testimoniato la promessa di Fax.

Un sorriso, non molto diverso da quello apparso sul volto della morta, piegò le labbra di Lessa, mentre si dirigeva verso la Sala, percorrendo a passi affrettati i corridoi.

Stava per precipitarsi dentro, quando si rese conto di aver permesso che l’anticipazione del trionfo distruggesse il suo autocontrollo. Si arrestò davanti al portale, trasse un profondo respiro. Abbassò le spalle e si aggobbì: tornò ad essere, di nuovo, una sguattera scialba.

La donna che era fuggita dalla camera per dare l’annuncio della morte stava singhiozzando rannicchiata ai piedi di Fax.

Lessa digrignò i denti: il suo odio verso quell’uomo raddoppiò d’intensità. Lui era felice che Dama Gemma fosse morta dando alla luce un figlio suo. Proprio in quel momento stava ordinando all’isterica messaggera di andare a chiamare la sua favorita in carica; senza dubbio, aveva intenzione di insediarla quale dama principale.

«Il bambino è vivo,» gridò Lessa, con voce alterata dalla collera e dall’odio. «È un maschio.»

Fax balzò in piedi, allontanò da sé con un calcio la donna piangente e guardò Lessa con una smorfia rabbiosa.

«Che cosa stai dicendo?»

«Il bambino è vivo. È un maschio,» ripeté lei, scendendo. L’incredulità e la rabbia che invasero la faccia di Fax furono, ai suoi occhi, uno spettacolo meraviglioso. Gli uomini del Connestabile repressero a stento un incauto grido di esultanza.

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