Ada non conosceva la risposta, ovviamente, ma era giunta a condividere l’appassionata curiosità di Harman, come se si trattasse di un gioco, di un’avventura. E continuava ad ascoltare da lui domande alle quali tutte le sue amiche avrebbero semplicemente riso: "Perché noi esseri umani siamo solo un milione? Perché i post hanno scelto proprio quel numero? Perché non uno in più o uno in meno? E perché a ciascuno di noi sono stati assegnati cento anni? Perché ci salvano anche dalla nostra stessa follia, in modo da farci vivere cento anni esatti.?".
Ada trovava che quelle domande erano tanto semplici e tanto profonde da risultare imbarazzanti, come se un adulto chiedesse perché abbiamo l’ombelico.
Ma si era unita alla ricerca: una macchina volante, forse una nave spaziale, per volare fino agli anelli e parlare ai post-umani in persona; e ora la leggenda dell’era del fax finale, l’Ebrea Errante. E ogni nuovo giorno portava altre eccitanti avventure.
"Come Daeman mangiato da un allosauro" pensò.
Arrossì all’idea e vide la propria pelle colorarsi di rosso lungo la linea d’acqua e bollicine. Quell’incidente era stato davvero fonte d’imbarazzo. Nessun altro ospite ricordava un avvenimento del genere. Perché i voynix non avevano fornito una protezione migliore?
"Cosa sono esattamente i voynix?" le aveva chiesto Harman, dodici giorni prima, nel complesso di case di tronchi vicino a Singapore. "Da dove vengono? Sono stati costruiti dagli umani dell’Età Perduta? Sono un frutto della linea di confine della follia? Sono stati creati dai post? O sono estranei a questo mondo e a questo tempo e si trovano qui per chissà quali scopi privati?"
Ada ricordò la risata di disagio, quella sera, mentre sedevano sulla terrazza coperta di rampicanti, bicchiere di champagne in mano, quando lui le aveva fatto, in un tono così serio, una domanda tanto assurda. Ma non era stata in grado di rispondere, allora (e neppure le sue amiche, nei giorni seguenti, anche se la loro risatina era stata più nervosa della sua) e adesso, dopo averli visti ogni giorno della vita, guardava i voynix con una curiosità che rasentava il timore. Hannah cominciava a reagire nella sua stessa maniera, aveva notato.
"Cosa sei realmente?" aveva pensato proprio quella sera, quando a Cratere Parigi erano scesi dalla carrozzella: il voynix era rimasto lì in piedi a reggere le stanghe della vettura, in apparenza privo d’occhi, col guscio arrugginito e il cappuccio di cuoio bagnato dalla pioggia, lame omicide ritratte, ma cuscinetti manipolatori estesi e avvolti a spirale.
Uscì dalla vasca, si asciugò, s’infilò un accappatoio leggero e congedò i servitori. Quelli se ne andarono da una delle loro membrane osmotiche nella parete. Ada passò sul balcone.
La stanza di Harman, e relativo balcone, era contigua alla sua, a destra, ma la privacy era assicurata da un fitto graticcio di fibra di bambù, con funzione di schermo, che sporgeva di un metro dal parapetto. Ada, scalza, andò al divisorio, si fermò per un attimo al parapetto, guardò in basso il cratere simile a un occhio rosso, poi il cielo sempre più sereno, con le stelle e i due anelli in movimento; mise la gamba a cavallo del parapetto, sentendo contro la parte interna della coscia il contatto col liscio bambù bagnato, posò il piede sul bordo e tastò il cornicione.
Per un secondo, mentre col piede cercava alla cieca il proseguimento del cornicione sull’altro lato del tramezzo, si resse solo grazie alla pressione delle dita dei piedi e delle mani e sentì la gravità tirarla nel vuoto. "Che cosa si proverebbe a cadere da qui nel magma ardente, sapendo di morire dopo qualche terribile secondo di caduta e di totale libertà?" pensò. Non l’avrebbe mai scoperto. Se ora avesse lasciato la presa, se i piedi scalzi e le dita fossero scivolati, non avrebbe mai ricordato i secondi e i minuti seguenti, quando si sarebbe risvegliata in una vasca dello spedale: i post-umani non concedevano alle persone il ricordo della propria morte.
Premette i seni contro il bordo del tramezzo, si sforzò di mantenere l’equilibrio e portò al di là la gamba sinistra, trovando col piede la stretta commessura di bambù-3 che correva al balcone di Harman. Non osò alzare gli occhi per vedere se Harman fosse sul balcone o alla porta a vetri: concentrò tutta l’attenzione nel non scivolare, con i piedi o con le dita, sul bambù-3 bagnato e sdrucciolevole.
Toccò il balcone, posò il piede sulla cornice e si afferrò al parapetto con tanta forza dà avere un tremito alle braccia. Si sentì venire meno le energie, l’indebolimento che segue la produzione di adrenalina, e passò in fretta la gamba sopra il parapetto; si accorse d’essersi graffiata l’interno della coscia e vide che l’accappatoio si era aperto.
Harman, seduto a gambe incrociate su una sdraio dai cuscini bianchi, la osservava. Il balcone era illuminato da una singola candela con una schermatura di vetro.
«Potevi aiutarmi» mormorò Ada, senza sapere bene perché lo diceva o perché bisbigliava. Anche Harman indossava solo una leggera veste da camera, chiusa da una fascia non molto stretta.
Harman sorrise e scosse la testa. «Te la cavavi benissimo. Ma perché non hai fatto il giro dall’altra parte e non hai bussato?»
Ada trasse un profondo respiro e, come in risposta, si slacciò la cintura dell’accappatoio e lasciò che i lembi si aprissero del tutto. L’aria che giungeva dal cratere era fredda, ma con correnti più calde incastonate nella brezza, e le accarezzava la parte inferiore del ventre.
Harman si alzò, si avvicinò, la guardò negli occhi e le chiuse l’accappatoio, stringendole la cintura, senza strusciare le dita su di lei. «Sono onorato» disse, bisbigliano anche lui, ora. «Ma non ancora, Ada. Non ancora.» Le prese la mano e l’accompagnò alla sdraio.
Vi si distesero fianco a fianco. Ada batté le palpebre per la sorpresa e arrossì per qualcosa di simile all’umiliazione (non era sicura se per il rifiuto di lui o per la propria sfrontatezza); Harman allungò la mano dietro la sdraio e prese due lini color crema. Li piegò uno alla volta, per disporre nella corretta posizione i microcircuiti ricamati sulla stoffa.
«Io non…» cominciò Ada.
«Lo so. Solo per questa volta. Credo che stia per accadere una cosa importante. Condividiamola.»
Ada si distese sul morbido cuscino e lasciò che Harman le sistemasse sugli occhi il lino. Sentì Harman sdraiarsi accanto a lei, la destra mollemente appoggiata sulla sua sinistra.
Iniziò il flusso d’immagini, suoni, sensazioni.
Gli dèi sono scesi a giocare. Più esattamente, sono scesi a uccidere.
La battaglia infuria ormai da un po’ di tempo, con Apollo che sferza i troiani, con Atena che sprona gli argivi, con altri dèi che oziano all’ombra di un albero sull’altura più vicina, a volte ridendo, mentre Iride e gli altri servitori versano loro vino. Ho visto il capo dei traci, Piroo, un baldo alleato dei troiani, uccidere con un sasso Diore dagli occhi grigi. Diore, capo degli epei, cadde per la semplice frattura della caviglia, quando Piroo, nella furia della battaglia, gli tirò il sasso, ma quasi tutti i suoi compagni indietreggiarono e Piroo si aprì a fendenti la strada fra i pochi rimasti a proteggere il loro condottiero caduto; e il povero Diore (non in grado di difendersi, ora, per la caviglia fratturata) non poté sottrarsi a Piroo che s’avventava: con la lunga lancia lo colpì al ventre, spargendo al suolo le viscere, agganciandole con la punta seghettata e facendone uscire altre, mentre Diore urlava.
Era questo, il sapore dell’ultima mezz’ora di battaglia; e fu un sollievo, quando Pallade Atena alzò la mano, ricevette il cenno di assenso degli altri dèi e fermò di colpo il tempo e il movimento.
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