«Cosa pensi che…» cominciò Orphu.
Ssst , trasmise Mahnmut sul raggio a fascio compatto. Aveva staccato il cavetto per non dover viaggiare ancora sul guscio di Orphu. Le nubi continuavano a turbinare sul campo di battaglia. Achille parla ai soldati, troiani e achei.
Capisci ciò che dice?
Certo. I file scaricati vanno benissimo, anche se devo desumere dal contesto qualche espressione colloquiale o qualche imprecazione.
Gli altri umani riescono a udirlo senza un altoparlante?
Quello ha polmoni d’acciaio , disse Mahnmut. Metaforicamente parlando. La sua voce arriva fino al mare in una direzione e alle mura di Troia in quella opposta.
Cosa dice? chiese Orphu.
"Io vi sfido, o dèi…" bla, bla, bla… "e ora grido: Distruzione! e sguinzaglio i cani della guerra…" bla, bla, bla… , declamò Mahnmut.
Un momento , disse Orphu. Ha usato davvero quella citazione da Shakespeare?
No. Traduco liberamente.
Puah. Pensavo che avessimo un sorprendente caso di plagio. Quanto manca all’attivazione del Congegno?
Quarantuno minuti , rispose Mahnmut. Qualcosa non va, nel tuo… Si interruppe.
Cosa c’è? disse Orphu.
Nel mezzo del provocatorio cri de cœur di Achille, comparve il re degli dèi. Achille smise di parlare. Nella piana di Ilio, duecentomila facce di uomini e una di robot si levarono al cielo.
Dalle nere nubi ribollenti scese Zeus, nel cocchio d’oro tirato da quattro magnifici cavalli olografici.
Teucro, il provetto arciere acheo, in piedi accanto ad Achille e Odisseo, prese la mira e scagliò una freccia, ma il cocchio si trovava troppo in alto, circondato (Mahnmut ne era certo) da un potente campo di forza. La freccia descrisse un arco e cadde nei cespugli di rovi ai piedi della cresta dove si trovavano i condottieri.
«TU OSI SFIDARE ME?» tuonò Zeus, con voce che risuonò in lungo e in largo per i campi e la spiaggia e la città dove erano radunati gli eserciti. «GUARDA LE CONSEGUENZE DELLA TUA HYBRIS!»
Il cocchio si spostò più in alto e poi accelerò verso sud, come se Zeus lasciasse il campo in direzione del monte Ida, appena visibile all’orizzonte meridionale. Forse solo Mahnmut, grazie alla vista telescopica, notò la piccola sfera argentea che Zeus, quando fu a una quindicina di chilometri da loro, lasciò cadere dal cocchio.
«A terra!» gridò Mahnmut, con voce amplificata a tutto volume, parlando in greco. «Per la vostra vita, gettatevi subito a terra! Non guardate a sud!»
Pochi obbedirono al suo ordine.
Mahnmut afferrò la cavezza di Orphu e corse al modesto riparo di un grosso macigno sulla cima della cresta, trenta metri più in là.
Il lampo, quando giunse, accecò migliaia di persone. I filtri polarizzati di Mahnmut passarono in automatico da valore sei a valore trecento. Il moravec non rallentò la folle corsa, tirandosi dietro Orphu come un gigantesco giocattolo.
L’onda d’urto colpì qualche secondo dopo il lampo, rotolò da sud in una muraglia di polvere e mandò visibili onde di stress a increspare l’atmosfera stessa. La velocità del vento passò in meno di un secondo da cinque chilometri all’ora da ovest a cento chilometri da sud. Centinaia di tende furono strappate dai picchetti e volarono nel cielo. I cavalli nitrirono e fuggirono dai padroni. Gli spumeggianti marosi furono soffiati lontano dalla riva.
Il rombo e l’onda d’urto sbatterono a terra tutti quelli che erano in piedi… tutti, tranne Ettore e Achille. Il rumore e la schiacciante pressione erano irresistibili, facevano vibrare ossa umane e interiora a stato solido moravec, oltre a far tremare le parti organiche di Mahnmut. Era come se la Terra stessa ruggisse e ululasse di collera. Centinaia di soldati achei e troiani, due chilometri a sud della cresta, presero fuoco e furono scagliati in alto e la loro cenere ricadde su migliaia di guerrieri atterriti in fuga verso nord.
Una sezione delle mura meridionali di Ilio si sbriciolò e crollò, portando con sé decine di persone, uomini e donne. Parecchie torri lignee della città presero fuoco e un’alta torre, quella da dove qualche giorno prima Hockenberry aveva guardato Ettore dire addio ad Andromaca e al figlioletto, cadde con uno schianto nella via.
Ettore e Achille si erano coperti il viso, riparandosi gli occhi dal terribile lampo che aveva scagliato la loro ombra a centinaia di metri nel Boschetto sacro. Dietro di loro, grossi macigni saldamente piantati sul tumulo funerario dell’amazzone Mirina vibrarono, scivolarono e caddero, schiacciando achei e troiani insieme. Il lucido elmo di Ettore non fu strappato via, ma il superbo cimiero di crine rosso fu sbrindellato dalle raffiche di vento che seguirono l’iniziale onda d’urto.
È successo qualcosa? chiese Orphu sul raggio a fascio compatto.
Sì , mormorò Mahnmut.
Sento una sorta di vibrazione e di pressione in tutto il guscio , disse Orphu.
Sì , mormorò di nuovo Mahnmut. L’unico motivo per cui il moravec di Io non era ruzzolato via sotto il vento e l’esplosione era che Mahnmut aveva legato la fune intorno al sasso più grosso che aveva trovato, sul lato sottovento del macigno che li riparava.
Che cosa… , cominciò Orphu.
Solo un minuto , lo interruppe Mahnmut.
La nube a fungo già si alzava per diecimila metri, fumo e tonnellate di detriti radioattivi salivano verso la stratosfera. Il terreno vibrava con tale forza per le scosse d’assestamento che perfino Achille ed Ettore caddero su un ginocchio per non farsi trascinare via come le decine di migliaia di loro uomini.
Il fungo atomico si mutò in un viso.
«VOLETE LA GUERRA, O MORTALI?» tuonò la faccia barbuta di Zeus nella nube che si alzava, ribolliva, si distendeva lentamente. «GLI DÈI IMMORTALI VI FARANNO VEDERE COS’È LA GUERRA.»
Prospero era lì seduto, in una lunga veste blu reale, coperta di ricami dai vividi colori, raffiguranti galassie, soli, comete, pianeti. Nella destra, segnata dalle macchie dell’età, reggeva un bastone intarsiato e posava la palma della sinistra su un libro spesso trenta centimetri. La poltrona intagliata, con gli ampi braccioli, non era un vero e proprio trono, ma vi si avvicinava abbastanza da comunicare un senso di autorità rafforzato dallo sguardo gelido del mago. Prospero era quasi calvo, ma sulle orecchie gli ricadevano i resti della chioma, capelli bianchi che scendevano a ricci sulla veste blu. La testa, un tempo superba, era adesso appollaiata sul collo avvizzito di un vecchio, ma il viso mostrava carattere fermo come l’acciaio: gelida indifferenza — se non proprio malignità — nei piccoli occhi, un naso a becco, un energico mento non ancora perso in giogaie o bargigli, sottili labbra da stregone, con gli angoli volti all’insù nell’antico vezzo dell’ironia. Era, ovviamente, un ologramma.
Daeman aveva guardato Harman attraversare la membrana semipermeabile e cadere sul pavimento per l’inattesa gravità, come era accaduto a lui. Poi Harman, vedendo Daeman comodamente seduto in poltrona e senza la maschera osmotica, si era tolto la sua, aveva inspirato a fondo l’aria fresca e aveva raggiunto a passi malfermi l’altra poltrona vuota.
«La gravità è solo un terzo di quella terrestre» disse Prospero «ma vi sembrerà come quella di Giove, dopo un mese in assenza di peso.»
Né Harman né Daeman replicarono.
La stanza era circolare, con un diametro di circa quindici metri, in pratica una cupola a vetri dal pavimento in su. Daeman non l’aveva vista, mentre si avvicinavano in volo alla città di cristallo, perché erano giunti nel polo sud dell’asteroide e quella stanza si trovava nel polo nord; ma immaginò che avesse l’aspetto di un lungo e sottile stelo metallico con un lucente fungo in cima. L’unica luce nella stanza proveniva dal tenue bagliore di un pannello di comando virtuale, circolare, posto al centro, dietro Prospero, e dal chiarore della Terra, della Luna e delle stelle che entrava dall’alto e dalle pareti laterali. Era sufficiente per vedere l’accurato lavorio sulla veste ricamata del mago e gli intagli lucidati a mano sul suo bastone.
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