Arthur Clarke - Voci di Terra lontana

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Voci di terra lontana (
) è il titolo di diversi lavori di fantascienza di Arthur C. Clarke, tra cui un racconto breve di fantascienza, e un romanzo del 1986 che portano lo stesso titolo.
La storia è ambientata 1800 anni nel futuro, nel distante pianeta oceanico di Thalassa. Thalassa viene popolato da esseri umani tramite una navicella carica di embrioni, partita dalla Terra nel tentativo di salvare la razza umana. Il romanzo comincia con un’introduzione sui Thalassiani; Mirissa, un’attraente biologa marina, e il suo partner, Brant, mentre sono in barca vedono l’arrivo di una nave spaziale. È così che finisce la loro pacifica esistenza, con l’apparizione della Magellano, un’astronave proveniente dalla Terra che contiene un milione di persone ibernate. Gli eventi che portarono la Terra a salvare la razza umana sono spiegati nel libro tramite flash-back. Gli scienziati nel 1967 scoprirono che l’emissione di neutrini dal Sole, un risultato delle reazioni di fusione nucleare, erano molte meno di quelle che avrebbero dovuto essere. Meno di un decennio dopo venne confermato che non era un errore degli strumenti. Il Sole stava per trasformarsi in una nova nel giro di 3600 anni.
La tecnologia era abbastanza avanzata da permettere diverse spedizioni di navicelle contenenti embrioni di esseri umani e di altri mammiferi, oltre a robot per crescerli, verso pianeti che erano considerati abitabili. La spedizione di esseri umani vivi non era stata nemmeno presa in considerazione poiché, essendo la velocità della luce un limite insuperabile e le distanze dei pianeti molto elevate, la durata del viaggio sarebbe stata comunque di secoli. Si era deciso quindi di inviare navi cariche di embrioni, dette navi inseminatrici, insieme ad un gruppo di robot che arrivato a destinazione si sarebbe occupato di preparare il territorio e allevare gli esseri umani.

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Non correva il rischio di annegare; a questo avrebbe provveduto il giubbotto salvagente. Ma dov’era la leva per gonfiarlo? Frugò disperatamente con le dita intorno alla cintola, e malgrado l’addestramento per un attimo ebbe un brivido gelido prima di trovare la sbarretta di metallo. La tirò con facilità, e con suo grande sollievo sentì il giubbotto gonfiarsi e avvolgerlo in un abbraccio rassicurante.

Ora l’unico vero pericolo era di andare a sbattere contro la Calypso .

Dov’era l’imbarcazione?

Troppo, troppo vicina in quelle acque sconvolte, e con le cabine di coperta quasi dentro il mare. Incredibilmente, gli parve che la maggior parte dell’equipaggio fosse ancora sul ponte. Qualcuno gridò indicandolo, e qualcun altro si accinse a gettargli un salvagente.

L’acqua era tutta piena di cose che galleggiavano — sedie, casse, oggetti vari — e anche la sonda robot, che affondava lentamente con le bolle d’aria che uscivano dai serbatoi rotti. Speriamo che la si possa recuperare, pensò Loren. In caso contrario, questa sarà una spedizione estremamente costosa, e forse passerà parecchio tempo prima che potremo tornare a studiare gli scorpioni di mare. Provò un certo orgoglio perché riusciva a restare così calmo.

Qualcosa urtò contro la sua gamba destra; automaticamente diede un calcio per scostarlo. Si trovava in una situazione scomoda, certo, ma Loren era più infastidito che preoccupato. Stava a galla senza problemi, l’onda anomala era passata e adesso non poteva succedergli più nulla.

Diede un altro calcio, ma più piano. E così facendo, sentì lo stesso contatto di prima contro l’altra gamba. Ma adesso non era più un contatto normale e insignificante; malgrado il giubbotto lo tenesse a galla, qualcosa cercava di tirarlo sott’acqua.

Fu in quel momento che Loren Lorenson seppe cosa vuol dire panico, perché improvvisamente gli tornarono alla mente i tentacoli in movimento del grande polipo. Però alcuni tentacoli dovevano essere in qualche misura cedevoli, fatti di carne. E invece il contatto sentito ricordava un filo metallico, un cavo. Certo, doveva essere il cavo che collegava la sonda robot alla nave.

Sarebbe forse stato ancora capace di districarsi se in quel momento un’onda non l’avesse investito facendolo bere. Tossendo cercò di liberarsi i polmoni dall’acqua scalciando contemporaneamente contro il cavo.

E poi il confine vitale tra aria e acqua — tra la vita e la morte — venne chissà come a trovarsi un metro al di sopra di lui; e senza che Loren potesse in nessun modo raggiungerlo.

In momenti come questi non si pensa ad altro che a vivere. Infatti Loren non rivide tutta quanta la sua vita, e non rimpianse alcunché, non rivide con gli occhi della mente nemmeno Mirissa.

Quando capì che tutto era perduto, non provò paura. Il suo ultimo pensiero consapevole fu di rabbia; rabbia per aver percorso cinquant’anni luce solo per fare quella fine così banale e poco eroica.

E così Loren Lorenson morì per la seconda volta nell’acqua tiepida del mare di Thalassa. L’esperienza non gli servì a niente; la prima morte, duecento anni prima, era stata molto più facile.

V. LA SINDROME DEL BOUNTY

31. La petizione

Sebbene il capitano Sirdar Bey avrebbe negato con tutte le sue forze di essere anche minimamente superstizioso, quando le cose andavano troppo bene cominciava sempre a preoccuparsi. Fino a quel momento, Thalassa era stato fin troppo bello per essere vero, e ogni cosa era andata secondo le previsioni più ottimistiche. La costruzione dello scudo procedeva esattamente secondo i piani stabiliti e non c’era nessun problema di cui valesse la pena di parlare.

Ma ora, nel giro di ventiquattro ore…

Certamente le cose sarebbero potute andare molto peggio. Il comandante Lorenson era stato molto, molto fortunato grazie a quel ragazzo. (A proposito, bisognava fare qualcosa per lui.) I medici avevano detto che ci era andato molto vicino. Ancora qualche minuto e il danno cerebrale sarebbe stato irreversibile.

Seccato perché si lasciava distrarre da quello che era il problema immediato, il capitano rilesse la comunicazione che ormai sapeva a memoria.

RETENAVE: SENZA DATA SENZA ORA A: CAPITANO DA: ANONIMO Signore: alcuni di noi vorrebbero avanzare la seguente proposta affinché venga presa in seria considerazione. Noi proponiamo che la missione abbia termine qui a Thalassa. In questo modo raggiungeremmo tutti i nostri obiettivi senza i rischi connessi al proseguimento del viaggio verso Sagan Due.

Ci rendiamo conto che ciò comporterebbe dei problemi con la popolazione attualmente residente su Thalassa, ma siamo sicuri che tali problemi verrebbero agevolmente risolti ricorrendo alla tecnologia in nostro possesso — vale a dire, all’impiego dell’ingegneria tettonica al fine di aumentare la superficie delle terre emerse. Con riferimento al Regolamento, Sezione 14, Comma 24 (a), noi chiediamo rispettosamente che un’Assemblea Generale venga indetta al più presto per discutere la questione.

«Ebbene, capitano Malina? Ambasciatore Kaldor? Qualche commento?»

L’alloggio del capitano era spazioso ma sobriamente ammobiliato. I due si scambiarono un’occhiata. Quindi Kaldor segnalò con un cenno del capo appena percettibile che riconosceva l’autorità dell’altro, e ne diede conferma bevendo un altro sorso dell’eccellente vino locale che i Thalassani avevano loro cortesemente fornito.

Il vicecomandante Malina, che si trovava meglio con le macchine che con le persone, guardò la comunicazione con aria infelice.

«Se non altro il tono è molto cortese.»

«Ci mancherebbe altro» disse spazientito il capitano Bey. «Non ha idea di chi possa averla scritta?»

«Assolutamente no. Se escludiamo noi tre, abbiamo 158 persone sospette, ho paura.»

«157» intervenne Kaldor. «Il comandante Lorenson ha un alibi a prova di bomba. Nel periodo di tempo in questione, era morto.»

«Ciò non facilita di molto il nostro compito» fece il capitano con un sorriso sforzato. «Forse lei ha qualche teoria, dottore?»

Certo che sì, pensò Kaldor. Ho vissuto su Marte per due lunghi anni marziani; sono stati dei Sabra, ci scommetterei. Ma è solo un’intuizione, e potrei sbagliarmi…

«Non ancora, capitano. Però terrò gli occhi aperti. Se vengo a sapere qualcosa, la terrò informata… per quanto mi sarà possibile.»

I due ufficiali capivano perfettamente la posizione di Kaldor. In quanto consigliere, egli era autonomo anche rispetto all’autorità del capitano. Era quanto di più simile a un cappellano vi fosse a bordo della Magellano .

«Sono sicuro, dottor Kaldor, che lei m’informerà nel caso in cui venisse a conoscenza di informazioni che mettano a repentaglio il buon esito della missione.»

Kaldor ebbe un attimo di esitazione, e quindi accennò di sì. Sperava proprio di non venirsi a trovare nel dilemma tradizionale del sacerdote che riceve la confessione di un assassino… che ancora sta preparando il delitto.

Come collaborazione non è un gran che, pensò con una certa amarezza il capitano. Ma mi fido completamente di entrambi e poi ho bisogno di confidarmi con qualcuno. Anche se la decisione finale sarà sempre mia…

«In primo luogo bisogna decidere se è il caso di rispondere alla comunicazione o meno. Comunque si decida, c’è sempre un rischio. Se si tratta di una cosa irrilevante, opera magari di un solo individuo in un momento di depressione, darle troppo peso sarebbe dannoso. Ma se dietro questo messaggio c’è un gruppo di gente decisa, allora forse aprire un dialogo potrebbe essere utile. Potrebbe chiarire la situazione, e magari anche consentirmi di identificare i responsabili.» E poi, cosa avrebbe fatto ai responsabili? si chiese il capitano Bey. Li avrebbe messi ai ferri?

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