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Fredric Brown: L'angelico lombrico

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Fredric Brown L'angelico lombrico

L'angelico lombrico: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo lungho e splendido racconto di Fredric Brown è stato scritto nel lontano 1943. Ma, per la ragione che il lettore troverà indicata nelle “note”, non era mai stato tradotto in italiano. Le difficoltà di traduzione sembravano insormontabili. E invece la soluzione era semplice. Bastava pensarci. E bastava, soprattutto, aver fiducia nei lettori: i quali, specialmente se l’inglese non lo sanno ancora, saranno ben lieti di imparare una decina di “parole chiave” in quella utilissima lingua e in questa singolarissima storia.

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— Insomma — disse Charlie — sembrava proprio un’aureola. Un piccolo cerchio d’oro sospeso sulla testa. Non appoggiato, sulla testa. Proprio sospeso.

— E… Ma scusa, come fai a sapere che era proprio la testa? Le estremità di un verme sono tutte e due uguali.

— Ecco — disse Charlie, soffermandosi a considerare la cosa — dal momento che era un’aureola, sarebbe sciocco che si trovasse all’estremità sbagliata! Anche più sciocco che avere… Insomma, capisci che cosa voglio dire!

— Uhm… — L’auto superò una curva, poi Pete disse: — E va bene, ragioniamo con un po’ di logica. Supponiamo che tu abbia visto, o che ti sia sembrato di vedere, quello che… ehm… ti è sembrato appunto di vedere. Tu non bevi molto, quindi non puoi avere alzato troppo il gomito. Restano tre possibilità.

— Io ne vedo solo due — disse Charlie. — O è stata un’allucinazione bell’e buona (capita, a volte, anche quando uno non ne ha mai avute), o si è trattato di un sogno. Sono sicuro di no, ma può anche darsi che mi sia addormentato e che abbia sognato di vederlo. Comunque non è molto probabile, vero? Vada per l’allucinazione, ma il sogno… no. Quale sarebbe la terza?

— Un fatto comune. Che tu abbia visto davvero un venne con le ali. Che esista davvero un animale del genere, anche se io non ne ho mai sentito parlare. Che tu non abbia visto subito le ali, perché erano ripiegate. Quella che ti è sembrata un’aureola, poteva essere una specie di cresta o un’antenna, o qualcosa del genere. Ci sono insetti maledettamente strani.

— Sì — disse Charlie, ma senza convinzione. Possono esserci animaletti strani, ma non al punto da mandar fuori all’improvviso un paio di ali e un’aureola, e da ascendere al… Si attaccò alla bottiglia e ingollò un altro sorso.

2

Passò con Jane il pomeriggio e la sera della domenica, e il pensiero del verme che si alzava da terra andò a cacciarsi in un angolo buio della mente. Tutto, tranne Jane, tendeva a finire là, quando Charlie si trovava con lei.

Ma, all’ora di coricarsi, quando fu di nuovo solo, quello tornò. Il pensiero, non il verme. Era tanto prepotente da non lasciarlo dormire, così lui si alzò; sedette nella poltrona accanto alla finestra e decise che l’unico modo di levarselo di mente era di affrontarlo e analizzarlo a fondo.

Se fosse riuscito a stabilire con certezza che cosa era successo accanto all’aiuola, forse avrebbe potuto dimenticarsene completamente.

Ma bisognava imporsi una logica di ferro.

Pete, con le sue tre ipotesi: allucinazione, sogno, realtà, aveva ragione. Ebbene, tanto per cominciare, non era stato un sogno. Lui, in quel momento, era perfettamente sveglio, ne era sicuro come di tutto il resto. Una ipotesi da eliminare, dunque.

Realtà? Impossibile. Pete aveva un bel parlare di animaletti dall’aspetto strano e di antenne o cose del genere… Mica aveva visto coi suoi occhi quella maledetta cosa! Diamine, a lui invece era passata a pochi centimetri dalla faccia. E l’aureola, c’era davvero.

Antenne? Sciocchezze.

Così, restava l’allucinazione. Ecco che cosa doveva essere stata: un’allucinazione. Capita, a volte. E, a meno che capitasse spesso, non ci si doveva considerare candidati al manicomio. Dunque, conveniva decidere per l’allucinazione. E poi? E poi, dimenticare.

Finalmente se ne andò a letto col pensiero di nuovo rivolto a Jane, e si addormentò sereno.

Il mattino dopo era lunedì e tornò al lavoro.

E il giorno dopo ancora era martedì.

E il martedì…

3

Non fu un verme che si alzava da terra, quella volta. Non fu niente che si potesse toccare, a meno che si possa toccare una scottatura da sole, operazione spesso dolorosa.

Ma una scottatura da sole, in pieno temporale…

Pioveva quando Charlie Wills uscì di casa quella mattina, pochi minuti dopo le otto, ma non diluviava. Una semplice pioggerellina. Charlie si calò il cappello sugli occhi, si abbottonò l’impermeabile e decise di recarsi al lavoro a piedi. Gli piaceva camminare sotto la pioggia. E aveva tempo: bastava essere in ufficio per le otto e mezzo.

Doveva percorrere ancora tre isolati, quando incontrò la Peste, che andava nella stessa direzione. La Peste era la sorella minore di Jane Pemberton, e il suo vero nome era Paula, ma quasi tutti se n’erano dimenticati. Lavorava con Charlie, alla “Hapworth Printing Co.”, ma lei era apprendista correttore di bozze e lui, vicedirettore di tipografia. Charlie aveva conosciuto Jane per mezzo suo, a una festa data per i dipendenti.

— Ciao, Peste — salutò. — Non hai paura di affogare? — Pioveva forte, ora. Veniva giù a catinelle.

— Ciao, Bambi. Mi piace andare a spasso sotto la pioggia.

Era naturale che le piacesse, pensò lui con amarezza. Sentendosi chiamare con quel soprannome, aveva provato un moto di stizza. Era stata Jane ad affibbiarglielo scherzosamente, una volta, ma lui s’era seccato, e lei non si era più permessa di ripeterlo. Jane era una ragazza ragionevole. Purtroppo, la Peste aveva sentito, e da quel momento lui era vissuto nel terrore che lo chiamasse così in ufficio, davanti agli altri. Se fosse capitata una cosa simile…

— Senti — disse — non potresti dimenticarti quel maledetto soprannome? Io smetterò di chiamarti Peste, se tu la smetti di chiamarmi così.

— Ma a me piace, che mi chiamino Peste! Perché a te non piace Bambi?

Gli indirizzò un sorriso radioso, e Charlie si sentì fremere di nuovo. Paula era quella che era, e lui non osava…

Seccatissimo, continuò a camminare sotto la pioggia sferzante, a testa bassa per ripararsi la faccia. Quella maledetta ragazzina linguacciuta…

Con una visuale limitata a pochi metri di marciapiede proprio davanti al suo naso, non avrebbe probabilmente notato cavallo e carrettiere, se non fosse stato per gli schiocchi di frusta che sembravano colpi di pistola.

Alzò gli occhi e vide a una ventina di metri davanti a loro un carro stracarico, che avanzava lentamente in mezzo alla strada, tirato da un ronzino vecchio e malandato, talmente ossuto e decrepito che quella lenta andatura sembrava proprio il massimo delle sue possibilità.

Ma il carrettiere evidentemente non la pensava così. Era un omone con una brutta faccia scura e mal rasata, e se ne stava in piedi, brandendo una frusta che calò con forza sulla schiena del povero cavallo, che tremò tutto sotto il colpo, barcollando tra le stanghe.

La frusta si alzò di nuovo.

— Ehi, là! — gridò Charlie. E si diresse verso il carro.

Non sapeva con certezza che cosa avrebbe fatto se quel bruto si fosse rifiutato di smettere. Ma qualcosa avrebbe fatto di sicuro: la vista di un animale maltrattato era una barbarie che Charlie Wills non poteva e non voleva sopportare.

— Ehi! — gridò ancora, poiché sembrava che il carrettiere non avesse sentito. E si mise a correre lungo il marciapiede.

L’uomo sentì il secondo richiamo (e forse aveva sentito anche il primo), si voltò di scatto e squadrò Charlie dall’alto in basso. Poi alzò la frusta un’altra volta, anche più in alto, e l’abbassò crudelmente, con tutte le sue forze, sulla groppa della povera bestia.

Charlie vide tutto rosso. Non gridò più. Ora sapeva benissimo che cosa doveva fare. Prima di tutto avrebbe sollevato di peso il carrettiere, tirandolo giù dal carro. Poi l’avrebbe tempestato di pugni.

Sentì le scarpe di Paula ticchettare freneticamente sull’asfalto, mentre la ragazza gli correva dietro, gridando: — Charlie, sta’ atten…

Ma non udì altro. Perché, proprio in quel momento accadde la cosa.

Un’ondata improvvisa, accecante, di calore insopportabile, la sensazione di essere piombato in una fornace ardente. Restò un attimo a bocca aperta, perché l’aria che gli entrava in gola e nei polmoni scottava come acqua bollente. E la pelle…

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