Fredric Brown - Vieni e impazzisci

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— Siete nuovo, qui? Oppure vi hanno appena trasferito da un altro reparto?

— Sono nuovo. Mi chiamo George Vine.

— Piacere, Baroni. Musicista. Lo ero, almeno. Adesso… lasciamo perdere. Volete sapere qualcosa su questo posto?

— Certo. Come si fa ad uscirne.

Baroni rise, senza allegria, ma neppure troppo amaramente. — Prima di tutto, bisogna convincerli che ci si è ristabiliti. Vi spiace raccontarmi che cosa avete? Ad alcuni dà fastidio, ad altri no.

Lui guardò Baroni, domandandosi a che categoria appartenesse. Finalmente disse: — A me non importa. Io… credo di essere Napoleone.

— E lo siete davvero?

— Che cosa?

— Napoleone! Se non lo siete davvero, è un conto. Può darsi che vi dimettano in sei mesi o giù di lì. Se invece lo siete sul serio… è un bel guaio. Probabilmente finirete i vostri giorni qui dentro.

— Perché? Voglio dire che se lo sono davvero, non sono affatto pazzo e…

— Non è questo il punto. Bisogna vedere se loro vi ritengono sano o no. Secondo la loro logica, se credete di essere Napoleone, non siete affatto sano. La cosa è dimostrata. Resterete qui.

— Anche se dico loro che sono convinto di essere George Vine?

— La sanno lunga, sulla paranoia. Per questo siete qui dentro. Ogni volta che un paranoico si stanca di questo posto; cerca di mentire perché lo mandino fuori. Mica sono nati ieri. Loro lo sanno.

Be’, questo in linea di massima, ma come… All’improvviso, un brivido gli corse giù perla schiena. Non finì neppure la domanda. «Vi pungono con gli aghi»… Ecco che cosa aveva voluto dire Ray Bassington.

Baroni annuì. — Il siero della verità — disse. — Quando un paranoico ha raggiunto lo stadio in cui può considerarsi guarito se dice la verità, quelli si assicurano che la dica sul serio prima di lasciarlo libero.

Si era cacciato volontariamente in una bella trappola! Probabilmente avrebbe finito i suoi giorni in quel posto, ormai.

Appoggiò la testa alle sbarre di ferro e chiuse gli occhi. Poi sentì dei passi che si allontanavano, e capì di essere rimasto solo.

Aprì gli occhi e guardò nel buio: ora le nuvole avevano nascosto la luna.

«Clare» pensò «Clare!»

Una trappola.

O lui era sano, o era pazzo. Se era sano, era caduto in trappola, e se c’era una trappola, doveva esserci anche il cacciatore. Magari i cacciatori.

Se invece era pazzo…

Volesse Iddio che fosse pazzo davvero! Così tutto avrebbe avuto un senso, e un giorno o l’altro se ne sarebbe potuto uscire da quell’inferno, tornare al suo posto al Blade , ricordandosi finalmente di tutti gli anni che aveva passato lì. O che George Vine aveva passato lì.

Ma qui stava il guaio. Lui non era affatto George Vine.

E c’era un altro ostacolo. Lui non era pazzo.

Le gelide sbarre di ferro premevano contro la sua fronte.

Dopo un po’ sentì aprire la porta e si voltò a guardare. Erano entrati due infermieri. Una speranza insensata, Irragionevole gli nacque dentro, lo travolse. Ma non durò a lungo.

— A letto, ragazzi! — disse uno dei due. Guardò l’uomo affetto da psicosi maniaco-depressiva e imprecò. — Accidenti! Ehi, Bassington, aiutatemi a trasportare quel tipo.

L’altro infermiere, un uomo tarchiato dai capelli tagliati corti come un lottatore, si avvicinò alla finestra.

— Siete nuovo, qui. Vine, nevvero?

Lui annuì.

— Andate in cerca di guai, o avete intenzione di fare giudizio?

La mano destra dell’uomo si contrasse in un pugno, il braccio si preparò pronto a scattare.

— Non voglio guai, ne ho abbastanza.

L’altro si calmò. — Bene. Continuate a pensarla così e andremo d’accordo. Lì c’è la cuccetta libera. Quella a destra. La rifarete voi stesso domattina. Statevene buono e badate ai fatti vostri. Se sentiremo rumore in corsia verremo noi e metteremo tutto a posto. A modo nostro. Non credo che vi andrebbe il sistema.

Lui non osò parlare, e si limitò a un cenno di assenso col capo. Poi si voltò e entrò nello stanzino che l’infermiere gli aveva indicato. C’erano due cuccette, là dentro. Una era vuota e sull’altra stava disteso supino il paziente affetto da psicosi maniaco-depressiva che poco prima sedeva su una sedia. Ora fissava ciecamente il soffitto con gli occhi spalancati. Gli avevano sfilate le pianelle, per il resto era completamente vestito.

Si diresse alla sua cuccetta, sapendo che non poteva fare assolutamente niente per quel disgraziato: impossibile raggiungerlo attraverso l’involucro di desolazione che ogni tanto lo avvolgeva tutto.

Sollevò la coperta grigia della brandina, e ne scoprì un’altra, pure grigia, stesa sopra un’imbottitura discretamente morbida. Si sfilò camicia e calzoni, e li appese ad un gancio infisso alla parete, ai piedi del letto. Poi cercò con gli occhi un interruttore per spegnere la luce, ma non ne vide. Mentre guardava, la luce si spense da sé.

Una sola lampada restava ancora accesa in un punto imprecisato della corsia, e al suo chiarore riuscì a togliersi scarpe e calze e a infilarsi sotto le coperte.

Rimase tranquillo per un poco; sentiva solo due rumori, entrambi deboli e lontani. In un punto imprecisato della corsia, qualcuno cantava piano a se stesso una nenia senza parole; più in là, qualcun altro singhiozzava. Nel suo stanzino, invece, non sentiva neppure il respiro del compagno che gli giaceva accanto.

Poi udì il passo strascicato di piedi nudi davanti alla porta aperta e qualcuno disse: — George Vine.

— Sì?

— Parlate più piano! Sono Bassington. Volevo dirvi di quell’infermiere. Avrei dovuto avvisarvi prima. Non stuzzicatelo.

— Non l’ho fatto.

— Visto. Siete stato in gamba. Vi farebbe a pezzi, se gliene deste l’occasione. È un sadico. Molti infermieri lo sono. Ecco perché sono diventati castigamatti . Così si chiamano, quelli. E se li licenziano da una parte perché sono troppo brutali, se ne vanno da un’altra. Domattina tornerà ancora lui. Per questo ho voluto avvertirvi.

L’ombra scomparve dalla soglia.

Lui rimase sdraiato nell’oscurità, soffrendo, più che pensando. Ponendosi domande. I matti sapevano di esserlo? Potevano dirlo? Erano tutti sicuri, come lo era lui…?

— Napoleone Bonaparte!

Era una voce chiara, distinta, ma veniva dalla sua mente o da fuori? Sedette sulla cuccetta, aguzzando gli occhi nel buio, ma non riuscì a distinguere alcuna forma, nessuna ombra, nel rettangolo della porta.

— Sì? — disse.

7

Solo allora, dopo essersi rizzato a sedere sulla cuccetta e aver risposto «Sì» si accorse con che nome era stato chiamato.

— Alzati. Vestiti.

Mise le gambe giù dal letto, e si alzò. Allungò un braccio per prendere la camicia, e stava già infilandosela quando si bloccò e chiese: — Perché?

— Per sapere la verità.

— Chi siete?

— Non parlare forte. Ti sento. Sono dentro e fuori di te. Non ho nome.

— Allora, che cosa siete? — Lo disse forte, senza pensarci.

— Uno strumento del Risplendente .

Si sedette di colpo sulla cuccetta, e si chinò macchinalmente a cercare a tentoni le scarpe.

Anche la sua mente brancolava nel buio, in cerca di qualcosa che non sapeva bene cosa fosse. Finalmente trovò una domanda da fare. La domanda. Ma non la pose a voce alta, questa volta; la formulò col pensiero, si concentrò su di essa, mentre infilava le gambe nei pantaloni.

— Sono pazzo?

— No! — La risposta fu chiara e tagliente. Ma era stata realmente pronunciata? O quel suono era soltanto nella sua mente?

Trovò finalmente le scarpe, e le calzò. Mentre trafficava con le stringhe, pensò: «Chi… che cosa… è Il Risplendente ?».

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