Fredric Brown - Vieni e impazzisci
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- Название:Vieni e impazzisci
- Автор:
- Издательство:Mondadori
- Жанр:
- Год:1971
- Город:Milano
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— Temo di sì. Dunque?
— Dunque andate in fondo e firmate la richiesta di internamento. Io starò al gioco in tutti i particolari; farò firmare il secondo certificato medico dal dottor Ellsworth Joyce Randolph.
— Non solleverete obiezioni?
— Servirebbero a qualcosa, se ne sollevassi?
— Ad una cosa soltanto, signor Vine. Se il paziente è prevenuto nei riguardi di uno psichiatra, è meglio non affidarlo alle cure di quel particolare sanitario. Se voi credete che il dottor Randolph sia implicato in un complotto contro di voi, vi consiglierei di andare da un altro.
— Anche se io scegliessi proprio Randolph? — domandò lui, piano.
Irving agitò una mano, seccato. — Naturalmente, se voi e il signor Doerr preferite.
— Preferiamo.
La testa dai capelli color grigio ferro annuì gravemente.
— Dovete però rendervi conto di una cosa. Se io e Randolph decideremo per il vostro ricovero in una casa di cura, non sarà certo per tenervi sotto sorveglianza speciale, ma per guarirvi con opportune terapie.
Lui annuì. Il medico si alzò. — Scusate un attimo. Faccio una telefonata a Randolph.
Guardò Irving passare in un’altra stanza. Pensò che c’era un telefono anche sulla scrivania, ma che certo non se ne era servito per non lasciargli udire il colloquio.
Rimase lì seduto, in silenzio, finché il medico tornò. — Il dottor Randolph è libero — disse. — Ho chiamato un tassì che ci accompagni al suo studio. Vi spiace se dico due parole anche a vostro cugino?
Lui rimase lì seduto, e non guardò il dottore che lasciava la stanza, dirigendosi verso la sala d’aspetto. Avrebbe potuto cercare di afferrare qualche parola origliando, ma non lo fece. Si accontentò di starsene lì seduto, finché sentì la porta della sala d’aspetto aprirsi alle sue spalle, e la voce di Charlie che lo chiamava: — Vieni, George. Il tassì sarà già arrivato, ormai.
Presero l’ascensore, e quando uscirono trovarono l’auto-pubblica. Il dottor Irving diede l’indirizzo all’autista.
— Bella giornata — disse, quando furono pressappoco a metà del percorso. Charles si schiarì la gola e convenne:
— Bella davvero.
Poi nessuno disse più niente per tutto il resto della corsa.
6
Indossava un paio di pantaloni grigi e una camicia dello stesso colore con il colletto aperto e senza una cravatta che potesse servirgli per impiccarsi. Mancava anche la cintura, per la stessa ragione, ma i calzoni erano stretti in vita e non c’era pericolo che scendessero. Come non c’era pericolo che gli capitasse di cadere da una delle finestre, perché erano tutte munite di sbarre.
Se ne stava lì, appoggiato al muro, a guardare gli altri sette. Era lì da due ore, e gli sembrava da due anni.
Il colloquio col dottor Randolph si era svolto senza difficoltà: era stato praticamente una replica di quello con Irving. Ovviamente, Randolph non aveva mai sentito parlare di lui.
Era quello che lui si aspettava.
Si sentiva calmissimo, ora. Aveva deciso che per un po’ si sarebbe astenuto dal pensare, dal preoccuparsi, perfino dal sentire.
Fece alcuni passi e si avvicinò ai giocatori di scacchi. Era una partita da gente sana, dove venivano rispettate le regole.
Uno degli uomini alzò gli occhi e domandò: — Come vi chiamate? — Era una domanda perfettamente normale; l’unica cosa strana era che lo stesso individuo avesse ripetuto la stessa domanda ben quattro volte da due ore à quella parte.
— George Vine — rispose.
— Io sono Bassington, Ray Bassington. Chiamatemi pure Ray. Siete pazzo voi?
— No.
— Alcuni di noi lo sono, altri no. Lui sì — Guardo l’uomo che stava suonando un pianoforte immaginario. — Sapete giocare a scacchi?
— Non molto bene.
— Capisco. Ceniamo presto, qui. Qualunque cosa vogliate sapere, non avete che da domandarmela.
— Come si fa a uscire di qui? Sentite un po’, non è una battuta di spirito. Dico sul serio. Com’è la procedura?
— Tutti i mesi ci si presenta davanti ad un gruppo di medici dell’ospedale. Quelli fanno alcune domande e decidono se potete andarvene o se dovete restare. A volte vi piantano dentro degli aghi. Come vi hanno classificato?
— Classificato? Che significa?
— Debolezza mentale, psicosi-depressiva, demenza precoce, malinconia involutiva…
— Oh paranoia, credo!
— Male. Allora vi pungono con degli aghi.
Un campanello suonò, chissà dove.
— La cena — disse l’altro giocatore di scacchi. — Mai tentato di suicidarvi? O di ammazzare qualcuno?
— No.
— Allora vi lasceranno mangiare a una tavola A, con coltello e forchetta.
La porta della corsia si aprì, versò l’esterno, e la figura di un infermiere si inquadrò nella soglia. — È ora — disse. Uscirono tutti, tranne l’uomo che se ne stava seduto su una sedia, fissando il vuoto.
— E quello? — chiese a Ray Bassington.
— Salta il pasto, stasera. Psicosi maniaco-depressiva che sta per entrare nella fase malinconica. Gli lasciano saltare un pasto. Se non è in grado di scendere neanche a quello seguente, lo portano giù loro e lo nutrono per forza. Avete una psicosi-depressiva, voi?
— No.
— Be’, siete fortunato. È tremendo, durante le crisi. Ecco, da questa parte.
Era un vasto locale. Tavoli e panche erano affollati di uomini vestiti di grigio, come lui Mentre attraversavano la soglia, un infermiere lo afferrò per un braccio e disse: — Sedete là.
Era proprio accanto alla porta. Un piatto di alluminio pieno di cibo messo lì alla rinfusa, e un cucchiaio. — Non potrei avere coltello e forchetta? — domandò. — Mi hanno detto…
L’infermiere lo mandò avanti con una spinta. — Periodo di osservazione. Sette giorni. Nessuno può avere le posate prima che sia finito il periodo di osservazione. Sedete.
Sedette. Nessuno a quel tavolo aveva le posate. Tutti gli altri stavano già mangiando, alcuni rumorosamente e disordinatamente. Lui tenne gli occhi fissi sul piatto, per quanto il cibo fosse tutt’altro che invitante. Giocherellò col cucchiaio, e riuscì a mandar giù qualche pezzo di patata pescata nella broda dello stufato, e un paio di bocconi di carne legnosa.
Il caffè era in un bicchiere di alluminio. Chissà perché? Poi capì quanto fosse facile rompere un bicchiere normale e quanto potessero diventare pericolosi i cocci delle solite tazze usate nei bar.
Il caffè era lungo e freddo: non riuscì a berlo.
Si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Per un attimo. Quando li riaprì il piatto e la tazza che gli stavano davanti erano vuoti e il suo compagno di sinistra mangiava a quattro palmenti. Era l’uomo che suonava il piano invisibile.
Pensò che se fosse rimasto a lungo in quel posto la fame gli avrebbe fatto mangiare anche quella roba. Non gli andava l’idea di restarci a lungo.
Dopo un po’ si sentì un altro campanello e tutti si alzarono — una tavolata per volta, a un segnale che lui non riuscì a individuare — e uscirono in fila. Il suo gruppo, che era entrato per ultimo, uscì per primo.
Ray Bassington era dietro di lui, sulle scale. — Vi ci abituerete — disse. — Come vi chiamate?
— George Vine.
Bassington rise. La porta venne chiusa nuovamente alle loro spalle, dall’esterno.
Fuori era buio. Lui si avvicinò a una delle finestre, e guardò fuori, attraverso le sbarre. C’era una sola stella lucente, che brillava proprio in cima al grosso platano del cortile. Era una stella? Be’, l’aveva seguito fin lì. Passò una nuvola e la nascose.
C’era qualcuno in piedi accanto a lui. Girò la testa e vide l’uomo che suonava il piano invisibile. Aveva la faccia abbronzata, dall’aria straniera, con gli occhi di un nero intenso; in quel momento sorrideva, come per una misteriosa barzelletta.
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