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Jack Vance: I racconti inediti

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Jack Vance I racconti inediti

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L’antologia di Jack Vance presenta al lettore i seguenti racconti di fantascienza: «ICABEM», «La selezione», «Il sifone plagiano», «Il fato del Phalid», «Il Tempio di Han», «Il figlio dell’albero» ed «I signori di Maxus».

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Keith si ritrasse ansimando, e ancora una volta il radar incorporato gli salvò la vita. Un impulso, nemmeno registrato dal suo cervello, gli fece contrarre i muscoli e lo scagliò di lato. Il proiettile gli attraversò la veste scalfendogli la pelle. Un altro proiettile gli passò accanto fischiando. Keith vide Hashembe in piedi sulla soglia, e dietro di lui il fattorino sconvolto.

Hashembe prese con comodo la mira.

«Aspetta,» gridò Keith. «Non sono stato io!»

Hashembe sorrise debolmente, e il dito premette il grilletto. Keith si buttò a terra e diresse il raggio laser sul polso di Hashembe. La pistola cadde e Hashembe rimase fermo, eretto, un po’ stordito. Keith corse avanti e lo gettò sul pavimento; afferrò il fattorino e gli iniettò del gas anestetico nella nuca, poi lo tirò nella stanza e chiuse la porta con un colpo.

Si girò e vide Hashembe che tentava di raggiungere la pistola con la mano sinistra. «Fermo!» gridò Keith con voce rauca. «Ti ho detto che non sono stato io.»

«Hai ucciso Shgawe.»

«Questo non è Shgawe.» Raccolse la pistola. «È un agente cinese, a cui hanno plasmato la faccia in modo che avesse lo stesso aspetto di Shgawe.»

Hashembe era scettico. «È difficile da credere.» Abbassò gli occhi sul cadavere. «Adoui Shgawe non era grasso come quest’uomo.» Si piegò, sollevò le dita grassocce del morto, poi si raddrizzò. «Questo non è Adoui Shgawe!» Esaminò Doutoufsky. «Il Capoufficio, un rinnegato polacco.»

«Pensavo che lavorasse per i Russi. Un errore che mi è quasi costato la vita.»

«Dov’è Shgawe?»

Keith girò lo sguardo per la stanza. «Dev’essere qui vicino.»

Nel bagno trovarono il cadavere di Shgawe. Un foglio di plastica al fluorosilicio rivestiva la vasca, nella quale era stato versato acido fluoridrico da due grandi damigiane per liquidi corrosivi. Il corpo di Shgawe giaceva supino nella vasca, ormai liquefatto, irriconoscibile.

Soffocati dalle esalazioni, Hashembe e Keith uscirono barcollando e sbatterono la porta.

La compostezza di Hashembe era svanita. Vacillò verso una sedia, e stringendosi il braccio ferito mormorò: «Io non capisco nulla di questi delitti.»

Keith diresse lo sguardo sulla forma accasciata dell’Ambasciatore cinese. «Shgawe era troppo forte per loro. O forse era venuto a sapere del grande piano.»

Hashembe scosse la testa intontito.

«I Cinesi vogliono l’Africa,» disse Keith. «È molto semplice. L’Africa ha spazio sufficiente per un bilione di Cinesi. Tra cinquant’anni potrebbe starcene comodamente un altro bilione.»

«Se è vero,» disse Hashembe, «è mostruoso. E Shgawe, che non avrebbe tollerato nulla di tutto ciò, è morto.»

«Di conseguenza,» disse Keith, «dobbiamo sostituire Shgawe con un leader che intenda perseguire gli stessi scopi.»

«E dove lo troviamo un leader così?»

«Qui. Io sono quel leader. Tu controlli l’esercito; non può esserci opposizione.»

Hashembe restò seduto due minuti a fissare nel vuoto. Poi si alzò in piedi. «Va bene. Tu sei il nuovo Premier. Se sarà necessario scioglieremo il Parlamento. Ad ogni modo non è altro che un recinto per galline starnazzanti.»

L’assassinio di Adoui Shgawe sconvolse la nazione e l’Africa intera. Quando il Grande Maresciallo Achille Hashembe comparve davanti al Parlamento, e annunciò che i suoi membri potevano scegliere se eleggere Tamba Ngasi Premier di Lakhadi, oppure sottomettersi allo scioglimento e alla legge marziale, Tamba Ngasi venne eletto senza esitazione.

Keith, indossando l’uniforme nera e oro dei Leoni Eletti, si rivolse alla Camera.

«In generale, la mia politica è identica a quella di Adoui Shgawe. Egli sperava in una forte Africa Unita; questa è anche la mia speranza. Egli tentava di evitare la dipendenza dalle potenze straniere, accettando in compenso l’aiuto sincero che gli veniva offerto. Questa è anche la mia politica. Adoui Shgawe amava la sua terra natia, e cercava di fare di Lakhadi un lume ispiratore di tutta l’Africa. Io spero di fare altrettanto. Gli impianti missilistici verranno piazzati esattamente come Adoui Shgawe aveva progettato, e i nostri tecnici di Lakhadi continueranno a imparare come funzionano quei congegni.»

Le settimane passarono. Keith rinnovò il personale del palazzo, e fece passare ogni pollice quadrato di pavimenti, pareti, soffitti, mobili e impianto eliminando tutte le cellule spia. Sebastiani gli aveva mandato tre nuovi operativi che funzionassero come collegamenti e provvedessero alla consulenza tecnica. Keith non comunicava più direttamente con Sebastiani; senza la diretta connessione con il suo superiore, la distinzione tra James Keith e Tamba Ngasi talvolta sembrava sfocare.

Keith era consapevole di questa tendenza, e faceva esercizi pratici contro la confusione. «Ho assunto il nome di quest’uomo, la sua faccia, la sua personalità. Devo pensare come lui, devo agire come lui. Ma non posso essere quell’uomo!» Ma qualche volta, quand’era particolarmente stanco, l’incertezza lo angustiava. Tamba Ngasi? James Keith? Quale era la vera personalità?

Due mesi trascorsero tranquillamente, e anche un terzo. La calma nell’occhio del ciclone, pensò Keith. Di tanto in tanto il protocollo esigeva che si incontrasse e conferisse con Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese. Nel corso di tali occasioni, prevalevano il decoro e la formalità; l’assassinio di Adoui Shgawe non sembrava altro che il residuo di un sogno spiacevole.

«Un sogno,» pensava Keith, e la parola gli riecheggiava nella mente. «Sto vivendo in un sogno.» In un subitaneo spasmo di terrore chiamò Sebastiani. «Mi sto esaurendo, sto perdendo me stesso.»

La voce di Sebastiani era fredda e ragionevole. «Sembra che tu stia facendo un bel lavoro.»

«Uno di questi giorni,» disse Keith cupamente, «mi parlerai in Inglese e io risponderò in Swahili. E allora…»

«E allora?» ribatté Sebastiani.

«Niente di importante,» disse Keith. E allora saprai che quando James Keith e Tomba Ngasi si sono incontrati tra i cespugli di rovi sulla sponda del fiume Dasa, Tamba Ngasi se ne è andato vivo, e gli sciacalli hanno divorato il corpo di James Keith.

Sebastiani diede a Keith un suggerimento lievemente inopportuno: «Trovati una di quelle belle ragazze di Fejo, e consuma un po’ della tua energia nervosa.»

Keith respinse cupamente l’idea. «Sentirebbe i collegamenti scattare e ronzare, e si chiederebbe che cosa l’ha corteggiata.»

Arrivò il giorno in cui finalmente gli impianti missilistici furono piazzati. Diciotto grandi cilindri di cemento, lambiti dalle lunghe onde dell’Atlantico, erano allineati lungo la costa di Lakhadi. Keith istituì un giorno di festa nazionale per celebrare l’installazione, e presiedette a un banchetto all’aperto nella piazza davanti alla Casa del Parlamento. I discorsi si susseguirono per ore, inneggiando alla nuova grandezza di Lakhadi. «Una nazione un tempo soggetta al crudele giogo imperialistico, e ora in possesso di una cultura superiore a qualunque altra a occidente della Cina!» furono le parole di Hsia Lu-Minh, accompagnate da un’occhiataccia a Leon Pashenko, l’Ambasciatore russo.

Pashenko, a sua volta, si espresse con parole altrettanto mordaci. «Con l’aiuto dell’Unione Sovietica, Lakhadi si trova assolutamente al sicuro dalle manovre offensive dell’Occidente. Raccomandiamo ora che tutti i tecnici, eccettuati quelli attualmente impegnati nei programmi di addestramento, vengano ritirati. La manodopera africana deve foggiare il futuro dell’Africa!»

James Keith ascoltava le loro voci solo parzialmente, e, senza che ne avesse l’intenzione, nella sua mente si formò uno schema dalla prospettiva così magnifica da sorprenderlo. Era una questione politica; poteva gire senza prima consultare Sebastiani? Ma era Tamba Ngasi almeno quanto era James Keith. E quando si alzò per rivolgersi all’assemblea, fu Tamba Ngasi a parlare.

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