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Fredric Brown: L'ultimo dei marziani

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Fredric Brown L'ultimo dei marziani

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Anche pubblicato come “L’ultimo marziano” e “Il superstite”.

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— Ma se non siete riusciti a realizzare il volo interplanetario, come mai…

— Non lo so. Vi dico che non lo so! È questo che mi fa impazzire. Non so come sono arrivato qui. Io sono Yangan Dal, un marziano . Mi trovo qui, dentro questo corpo. Vi dico che c’è da impazzire.

Barney portò altre due birre. Aveva l’aria sempre più preoccupata, così aspettai che si fosse allontanato prima di chiedere: — Dentro questo corpo? Volete dire che…

— Ma certo! Questo non sono io, questo corpo in cui mi trovo. Non penserete che i marziani siano esattamente simili ai terrestri, no? Io sono alto un metro, il mio peso sulla Terra sarebbe una decina di chilogrammi. Ho quattro braccia e mani con sei dita. Questo corpo… mi fa paura. Non lo capisco come non capisco come ci sono entrato.

— Ma come si spiega che parlate inglese? O questo lo sapete?

— Be’… in un certo senso sì. Questo corpo… si chiama Howard Wilcox. È un contabile. È sposato con una femmina della sua specie. Lavora in un posto chiamato Humbert Lamp Company. Ho tutti i suoi ricordi e so fare tutto quel che sapeva fare lui; so tutto quel che sapeva lui. In un certo qual senso io sono Howard Wilcox. Ho in tasca quanto basta per poterlo dimostrare. Ma è una storia pazzesca, perché in realtà io mi chiamo Yangan Dal e sono un marziano. Ho perfino gli stessi gusti di questo corpo. Mi piace la birra. E quando penso alla moglie di questo corpo, io… ecco…

Lo fissai a bocca aperta, poi tirai fuori le sigarette e gli porsi il pacchetto. — Fumate?

— Questo corpo… Howard Wilcox… non fuma. Grazie lo stesso. E permettete che vi offra una birra. Ci sono dei soldi in queste tasche.

Feci un cenno a Barney.

— Quando è successo? Solo due ore fa, avete detto? Prima non avevate mai sospettato di essere un marziano?

— Sospettare? Ma io ero un marziano. Che ora è?

Guardai l’orologio appeso al muro. — Le nove e qualcosa.

— Allora è di più. Tre ore e mezzo. Saranno state le cinque e mezzo quando mi son trovato dentro questo corpo perché in quel momento stava tornando a casa dal lavoro e dai suoi ricordi ho saputo che aveva lasciato l’ufficio da mezz’ora, alle cinque.

— E siete andato… è andato a casa?

— No, ero troppo sconvolto. Non era la mia casa. Io sono un marziano. Non lo capite? Be’, non posso farvene una colpa, perché non capisco nemmeno io. Ma ho cominciato a camminare. Poi m’è… voglio dire questo Wilcox ha avuto sete ed è… sono…

S’interruppe e ricominciò da principio. — Questo corpo sentì una gran sete e si fermò a bere in questo locale. Dopo due o tre birre ho pensato che forse il barista avrebbe potuto darmi un consiglio e così gli ho raccontato tutto.

Mi sporsi attraverso il tavolo. — Ascoltatemi, Howard — dissi — siete aspettato a casa perla cena. Chissà come sarà in ansia vostra moglie, a quest’ora. Avete pensato a telefonarle?

— No di certo. Io non sono Howard Wilcox. — Ma un nuovo problema gli si era affacciato alla mente, glielo potevo leggere in faccia.

— Fareste bene a farle una telefonata — dissi. — Che avete da perdere? Chiunque siate, Yangan Dal o Howard Wilcox, c’è una donna che vi aspetta a casa, in ansia per voi o per lui. Siate generoso, telefonatele. Il numero lo sapete?

— Si capisce. È il mio numero… cioè, il numero di Wilcox…

— Smettetela di impelagarvi in questi pasticci grammaticali e andate a farle questa telefonata. Per ora non cercate di spiegare niente, siete ancora troppo confuso. Ditele solo che le racconterete appena tornato a casa, ma che state benissimo e che non deve preoccuparsi.

Si alzò come un uomo in trance e si avviò verso la cabina. Io tornai al banco e mandai giù un altro whisky, liscio.

Barney disse: — Che te ne pare? Credi che sia…

— Ancora non lo so — dissi. — C’è qualcosa che non riesco a capire.

Tornai al tavolo.

Il marziano sorrise debolmente. Disse: — Mi ha investito come un ciclone. Se torno a… se Howard Wilcox torna a casa, farà bene a inventare una storia che stia in piedi. — Bevve un sorso di birra. — Meglio della storia di Yangan Dal, in ogni caso. — Diventava più umano di minuto in minuto.

Ma poi di colpo ricominciò. — Forse avrei dovuto dirvi fin da principio com’è andata. Ero chiuso a chiave in una stanza su Marte. Nella città di Skar. Non so perché m’avessero messo là dentro, ma comunque ero chiuso a chiave. E poi per molto tempo non mi hanno più portato niente da mangiare e alla fine avevo così fame che ho tolto una pietra dal pavimento e ho cominciato a scavare con le unghie sotto la porta. Morivo letteralmente di fame. Mi ci sono voluti tre giorni, giorni marziani, circa sei giorni dei vostri, per aprirmi un passaggio; poi mi son messo a girare per l’edificio finché ho trovate il magazzino. Non c’era nessuno, e mi sono sfamato. Poi…

— Continuate — dissi. — Vi ascolto.

— Sono uscito dall’edificio e le strade erano piene di morti in putrefazione. — Si coprì gli occhi con le mani. — Sono entrato in due o tre case. Non so perché, non so cosa cercassi, ma nessuno era morto in casa. Tutti i cadaveri erano all’aperto, e nessuno era rinsecchito; così ho capito che non erano morti di kryl.

Poi, come vi ho detto, ho rubato il targan… anzi, non l’ho nemmeno rubato, perché non c’era più alcun proprietario… e sono partito a cercare qualche superstite. Fuori, in campagna, era la stessa cosa: tutti stesi all’aperto, vicino alle case, morti. E a Undanel e a Zandar, lo stesso.

«Vi ho già detto che Zandar è la nostra città più grande, la capitale? Al centro di Zandar c’è un immenso spiazzo, il Campo dei Giochi, almeno due chilometri di lato, secondo le misure terrestri. E tutti gli abitanti di Zandar erano o, per lo meno, sembrava che ci fossero tutti. Tre milioni di corpi, ammucchiati là come se si fossero radunati per morire insieme, all’aperto. Come se avessero saputo che dovevano morire.

«Ho visto tutto dall’alto, mentre sorvolavo la città. E al centro dello spiazzo c’era qualcosa, sopra una piattaforma. Ho planato, ho tenuto il targan sospeso in aria (è un po’ come i vostri elicotteri), l’ho tenuto sospeso sopra la piattaforma per vedere cos’era. Era una specie di colonna di rame massiccio. Il rame su Marte è come l’oro sulla Terra. Nel corpo della colonna ho visto un pulsante, montato su pietre preziose. E un marziano con indosso una tunica azzurra giaceva motto ai piedi della colonna, proprio sotto il pulsante, come se l’avesse premuto e poi fosse morto. E tutti gli altri erano morti nello stesso momento, insieme a lui. Tutti, su Marte, erano morti, tranne me.

«Così sono atterrato sulla piattaforma, sono uscito dal targan e ho schiacciato il pulsante. Volevo morire anch’io; tutti gli altri erano morti e volevo morire anch’io. Ma non ci sono riuscito . Ero in tram, sulla Terra, mentre tornavo a casa dall’ufficio, e mi chiamavo…

Feci un segno a Barney.

— Statemi a sentire, Howard — dissi. — Ci berremo ancora una birra e poi voi tornerete a casa da vostra moglie. Già ora vi farà una scenata da levarvi il pelo, e più aspettate peggio sarà. E se volete un consiglio, compratele dei dolci o dei fiori, e mentre andate a casa inventate una scusa che sia veramente convincente. Non come quella che avete raccontato a me.

Lui cominciò: — Ma…

Lo interruppi: — Non ci sono ma. Vi chiamate Howard Wilcox e fareste bene a tornare a casa. Vi dirò quel che può essere successo. Sappiamo ancora ben poco della mente umana, e molti strani fenomeni si verificano in questo campo. Forse la gente del medioevo non si sbagliava poi troppo a credere nei posseduti. Volete sapere che cosa vi è capitato?

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