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Fredric Brown: Pi nel cielo

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Fredric Brown Pi nel cielo

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— Certo, — gli rispose il pubblicista. — Ma quale confusione? — Risultò che era appena tornato da una partita di pesca e non aveva letto i giornali né gli era mai capitato di alzare io sguardo al cielo. Ma scrisse gli articoli. Ci mise perfino del sex-appeal, illustrando gli articoli con antiche carte stellari che mostravano le costellazioni in deshabillé, riproducendo certi famosi dipinti quali — L’Origine della Via Lattea — ed utilizzando altresì la fotografia di una ragazza, in costume da bagno che puntava un telescopio portatile in direzione di una delle stelle erranti, o così almeno si poteva presumere. La tiratura del Chicago Blade aumentò del 21,7 per cento.

Erano di nuovo le cinque in quello studio dell’Osservatorio Cole, giusto ventiquattr’ore e un quarto dopo l’inizio di tutta quell’agitazione. Roger Phlutter — sì, siamo tornati da lui — si svegliò di colpo quando una mano gli si appoggiò sulla spalla.

— Vai a casa, Roger, — gli disse Mervin Ambruster, il suo capo, con voce gentile.

Roger si rizzò di scatto a sedere.

— Signor Ambruster, — esclamò, — mi spiace essermi addormentato.

— Sciocchezze, — disse Ambruster. — Non puoi restare qui per sempre, nessuno di noi può farlo. Vai a casa.

Roger Phlutter andò a casa. Ma quand’ebbe fatto un bagno, si sentì molto più inquieto che assonnato. Erano soltanto le sei e un quarto. Telefonò a Elsie.

— Mi spiace tanto, Roger, ma ho un altro appuntamento. Cosa sta succedendo, Roger? Voglio dire, con le stelle?

— Oh, Elsie. si stanno muovendo… e nessuno sa perché.

— Ma io pensavo che tutte le stelle si stessero muovendo, — protestò Elsie. — Il Sole è una stella, non è vero? Una volta mi hai detto che il Sole si sta muovendo verso un punto in Sansone.

— Ercole.

— D’accordo, Ercole. E visto che, come mi hai detto, tutte le stelle si muovono, perché mai la gente si eccita tanto?

— Questa è una cosa diversa, — replicò Roger. — Prendi Canopo, ad esempio. Ha cominciato a muoversi alla velocità di sette anni-luce al giorno. Non può farlo!

— Perché no?

— Perché, — le spiegò, paziente, Roger, — niente può muoversi più veloce della luce.

— Ma se si muove così in fretta, allora vuol dire che può, — obbiettó Elsie. — Oppure è il tuo telescopio che non funziona, o qualcosa del genere. Ad ogni modo, è molto lontana, non è vero?

— Centosessanta anni-luce. Così lontana che la vediamo com’era centosessanta anni fa.

— Allora può darsi che non si stia muovendo affatto, — disse Elsie. — Voglio dire, forse ha smesso di muoversi centocinquant’anni fa, e voi vi state eccitando per qualcosa che non ha più importanza perché è già finito. Mi ami sempre?

— Certo, tesoro. Non puoi mollare quell’appuntamento?

— Temo di no, Roger. Ma vorrei tanto poterlo fare.

Doveva accontentarsi di questo. Decise di andare in centro a mangiare.

Erano le prime ore della sera, troppo presto per vedere le stelle, anche se il limpido cielo azzurro aveva incominciato a imbrunire. Roger sapeva che, quando le stelle fossero comparse quella sera, poche costellazioni sarebbero state ancora riconoscibili.

Mentre camminava, ripensò ai commenti di Elsie e decise che erano intelligenti almeno quanto tutti quelli che aveva ascoltato all’Osservatorio Cole. In un certo senso, Elsie aveva presentato il problema da un’angolatura alla quale lui non aveva pensato prima, e ciò rendeva la cosa ancora più incomprensibile.

Tutti quei movimenti dovevano essere incominciati la stessa notte… eppure non era così.

Il Centauro doveva aver cominciato a muoversi all’incirca quattro anni prima, e Rigel cinquecentoquaranta anni prima, quando Cristoforo Colombo portava ancora i calzoncini corti, sempre che a quell’epoca si usassero, e Vega doveva aver cominciato a muoversi in quel modo nell’anno in cui lui, Roger, non Vega, era nato, ventisei anni prima. Ogni stella, di quelle centinaia, doveva aver cominciato a muoversi a un dato istante, in esatta dipendenza dalla sua distanza dalla Terra. Una dipendenza esatta al secondo-luce, poiché il controllo di tutte le lastre fotografiche prese la penultima notte indicavano che tutti i movimenti stellari avevano avuto inizio alle 4 e 10 antimeridiane, ora di Greenwich. Che pasticcio!

A meno che tutto ciò non significasse che, dopotutto, la luce aveva una velocità infinita.

E se non l’aveva — ed è sintomatico della perplessità di Roger il fatto che avesse postulato quell’incredibile “se” — allora… allora cosa? Tutto restava sconcertante come, o peggio, di prima.

Soprattutto, si sentiva offeso che potessero accadere cose come quelle.

Entrò in un ristorante e si sedette. Una radio stava urlando l’ultima composizione disaritmica, la nuova musica da ballo in quarti di tono, un sottofondo di strumenti a corda e a fiato per una folle melodia battuta su tam-tam di varie dimensioni. Fra un numero e l’altro, un esagitato speaker vantava le qualità di questo o quel prodotto.

Masticando un sandwich, Roger si godette il disaritmo, cercando di ignorare la pubblicità. La maggior parte delle persone intelligenti degli anni Ottanta avevano sviluppato un’efficace sordità radiofonica che consentiva loro di non udire la voce umana che usciva dagli altoparlanti, pur continuando a udire e a godersi gli allora infrequenti interludi musicali, fra un annuncio e l’altro. In un’epoca in cui la concorrenza pubblicitaria era così acuta, non c’era in pratica un solo muro vuoto o un appezzamento di terreno senza manifesti o cartelloni pubblicitari, per un raggio di molte miglia intorno a un qualunque centro abitato. Per questo, la gente con un briciolo di criterio poteva conservare una normale prospettiva di vita solo se coltivava con molta cura una parziale cecità e sordità che consentiva loro d’ignorare la continua, massiccia aggressione portata ai loro sensi.

Per questo motivo, buona parte del notiziario che seguì il programma di musica disaritmica entrò in un orecchio di Roger e uscì dall’altro, come si dice, prima che si rendesse conto che non stava ascoltando uno sbrodoso panegirico di qualche alimento per la prima colazione.

Gli parve di riconoscere la voce, e dopo un attimo o due fu certo che si trattava di Milton Hale, l’eminente fisico, la cui nuova teoria sul principio d’indeterminazione aveva negli ultimi tempi sollevato tante controversie nel mondo scientifico. A quanto pareva, il professor Hale veniva intervistato da un radiocronista.

— … perciò un corpo celeste può avere una posizione o una velocità, ma non si può dire che le abbia ambedue contemporaneamente, in relazione a una data struttura spaziotemporale.

— Dottor Hale, può ripeterlo in un linguaggio un po’ meno… In un linguaggio comune, insomma? — disse la voce sciropposa dell’intervistatore.

— Questo è linguaggio comune, signore. Espresso in termini scientifici, secondo il principio di contrazione di Heisenberg, n elevato alla settimana, tra parentesi, rappresenta la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente della curvatura di massa…

— Grazie, dottor Hale, ma temo che lei sia un po’ al di sopra dei cervelli dei nostri ascoltatori…

— E del tuo, — pensò Roger Phlutter.

— Sono certo, professor Hale, che la domanda che più interessa i nostri ascoltatori sia questa: tali movimenti stellari, finora senza precedenti, sono reali o illusori?

— Entrambe le cose. Sono reali in rapporto alla struttura spaziale, ma non in rapporto alla struttura dello spazio-tempo.

— Potrebbe chiarire la cosa, professore?

— Credo di si. La difficoltà è puramente epistemologica. In stretta casualità, l’impatto d’una macroscopica…

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