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Carolyn Cherryh: Cassandra

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Carolyn Cherryh Cassandra

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Come la principessa troiana anche la protagonista di questo racconto vede il futuro senza essere creduta, ed anche la speranza muore presto nel futuro che ci aspetta. Vincitore del premio Hugo per il miglior racconto breve in 1979. Nominato per il premio Nebula per il miglior racconto breve in 1979.

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Carolyn Janice Cherryh

Cassandra

I fuochi.

Lì erano diventati insopportabili.

Alis cercò a tentoni la porta dell’appartamento: sapeva che era solida. Toccò il metallo fresco della maniglia tra le fiamme… tra il fumo che vorticava fuori vide le scale-ombra, abbastanza chiaramente per poterle scendere convincendo i propri sensi che avrebbero sostenuto il suo peso.

Pazza Alis. Non si muoveva in fretta. I fuochi ardevano costanti. Li attraversò, scese i gradini incorporei fino al pianterreno solido… non sopportava l’ascensore, quello spazio chiuso con il pavimento-ombra, che scendeva e scendeva precipitosamente; raggiunse il piano terreno e distolse gli occhi dalle rosse fiamme senza calore.

Un fantasma le disse buongiorno… il vecchio Willis, magro e trasparente sullo sfondo delle fiamme che lingueggiavano. Lei batté le palpebre, rispose al saluto… e non le sfuggì la scrollata di testa del vecchio Willis quando aprì la porta e uscì. Fuori scorreva il traffico di mezzogiorno, noncurante delle fiamme, delle carcasse che bruciavano per la strada, dei muri che crollavano.

Anche l’appartamento crollò… i mattoni neri piombarono in quell’inferno. Un inferno tra gli spettrali alberi verdi. Il vecchio Willis fuggiva bruciando, cadeva… si trasformava in una massa di carne annerita e sussultante… moriva, ogni giorno. Alis non gridava più, trasaliva appena. Ignorò l’orrore che la circondava, passò tra i mattoni sgretolati che non avevano sostanza, tra i fantasmi indaffarati e frettolosi che non volevano essere disturbati.

Il Kingsley’s Cafe era intero, più del resto. Era il rifugio per il pomeriggio, una sensazione di sicurezza. Alis spinse la porta, sentì tintinnare un campanello perduto. I clienti fantasma la guardarono bisbigliando.

Pazza Alis.

I bisbigli la turbavano. Evitò le loro occhiate e la loro presenza, sedette in un separé nell’angolo, dove c’erano soltanto poche tracce del fuoco.

GUERRA, diceva a caratteri cubitali il titolo del giornale nel distributore automatico. Alis rabbrividì e alzò lo sguardo verso il viso spettrale di Sam Kingsley.

— Caffè — disse. — Sandwich al prosciutto. — Era sempre così. Lei non cambiava mai l’ordinazione. Pazza Alis. Era la sua malattia mentale a mantenerla. Ogni mese arrivava un assegno, da quando l’ospedale l’aveva dimessa. Ogni settimana tornava all’ambulatorio, dai dottori che adesso erano ombre come gli altri. L’ambulatorio bruciava intorno a loro. Il fumo ondeggiava nei corridoi celesti e asettici. La settimana prima un paziente era fuggito… avvolto dalle fiamme…

Un tintinnio di porcellana. Sam posò il caffè sul tavolino, e poco dopo tornò e portò il sandwich. Alis chinò la testa e mangiò il cibo trasparente sul piatto sbreccato; la tazza era incrinata e macchiata dal fuoco, e il manico si vedeva appena. Mangiò: la fame era abbastanza forte per vincere l’orrore ormai abituale. Viste cento volte, le scene più terribili avevano perduto il loro potere su di lei: adesso non gridava più alle ombre. Parlava ai fantasmi e li toccava, mangiava il cibo che bene o male calmava gli stimoli tormentosi dello stomaco, portava lo stesso maglione nero troppo largo e la logora camicetta blu e i calzoni grigi perché erano gli unici capi d’abbigliamento che sembravano solidi. Ogni sera li lavava e li asciugava, e l’indomani mattina li indossava, lasciando gli altri appesi nell’armadio. Erano gli unici che fossero solidi, veramente.

Queste cose non le diceva ai dottori. Un’intera vita passata dentro e fuori dagli ospedali l’aveva dissuasa dal confidarsi. Sapeva che cosa dire. La vista parziale le permetteva di sorridere alle facce fantasma, di manipolare astutamente i loro diagrammi e le loro carte mentre stava seduta fra le rovine che avevano incominciato a spegnersi nel tardo pomeriggio. Nel corridoio giaceva un cadavere carbonizzato. Lei non rabbrividiva quando sorrideva gentilmente al dottore.

Le davano le medicine. Le medicine fermavano i sogni, gli ululati delle sirene, i passi precipitosi nella notte davanti al suo appartamento. Le permettevano di dormire nel letto spettrale, in alto fra le rovine, tra le fiamme che crepitavano e le voci che urlavano. Lei non parlava di queste cose. L’aveva imparato in quei lunghi anni negli ospedali. Si lagnava soltanto degli incubi e dell’irrequietezza, e loro le davano altre compresse rosse.

GUERRA, diceva il titolo del giornale.

La tazza tremò e tintinnò sul piattino, quando la prese. Inghiottì l’ultimo boccone di pane e bevve il caffè, cercando di non guardare oltre la vetrina sfondata, dove carcasse di metallo contorto fumavano sulla strada. Rimase, come faceva tutti i giorni, e Sam le riempì borbottando la tazza di caffè che lei avrebbe fatto durare il più a lungo possibile prima di ordinarne un’altra. Alis la sollevò, assaporando il contatto e dominando il tremito delle mani.

Il campanello tintinnò. Un uomo chiuse la porta e andò al banco.

Era integro, nitido ai suoi occhi. Alis lo fissò, stupita, con il cuore che le batteva forte. L’uomo ordinò un caffè, andò al distributore automatico a prendere un giornale, tornò a sedersi e lasciò che il caffè si freddasse mentre leggeva le notizie. Alis lo vedeva di spalle: la giacca di pelle marrone sciupata, i capelli bruni che arrivavano fin quasi al colletto. Finalmente bevve il caffè ormai freddo, tutto d’un fiato, mise il denaro sul banco e lasciò il giornale, con il titolo coperto.

Una faccia giovane, in carne e ossa tra i fantasmi. L’uomo li ignorò tutti e si avviò verso la porta.

Alis uscì dal separé.

— Ehi! — le gridò Sam.

Alis frugò nella borsetta mentre il campanello tintinnava, e buttò sul tavolo una banconota, senza attendere il resto sebbene fosse da cinque dollari. La paura le aveva messo in bocca un sapore di rame; l’uomo era andato via. Corse fuori dal caffè, girò intorno alle macerie senza riflettere, vide l’uomo che spariva tra i fantasmi.

Lo rincorse, facendosi largo a spallate, sfidando le fiamme… gridò mentre le macerie le grandinavano addosso senza farle male, e continuò a correre.

Molti spettri si voltarono a guardarla, scandalizzati… lui fece altrettanto, ed Alis gli corse incontro, sbalordita nel vedere la stessa espressione sulla sua faccia.

— Cosa c’è? — chiese l’uomo.

Alis sbatté le palpebre, stordita dalla scoperta che l’uomo non la vedeva in modo diverso dagli altri. Non riuscì a rispondergli. Irritato, l’uomo riprese a camminare ed Alis lo seguì. Le lacrime le scorrevano sul viso e respirava a fatica. La gente la guardava. L’uomo si accorse della sua presenza e allungò il passo, tra le macerie, tra le fiamme. Un muro incominciò a crollare ed Alis urlò, nonostante tutto.

L’uomo si girò di scatto. La polvere e la fuliggine si alzarono dietro di lui come una nube. Aveva un’espressione sconvolta e incollerita. La guardava come la guardavano gli altri. Le madri trascinavano via i bambini. Un gruppo di ragazzotti si fermò ridendo.

— Aspetti — disse Alis. L’uomo aprì la bocca come se volesse imprecare; lei rabbrividì e le sue lacrime si raffreddarono nel vento insensibile degli incendi. La faccia dell’uomo assunse un’espressione di pietà imbarazzata. Si mise una mano in tasca, tirò fuori un po’ di denaro, in fretta, cercò di darglielo. Lei scrollò la testa, furiosamente, tentando di arrestare le lacrime… guardò verso l’alto e tremò mentre un altro palazzo crollava tra le fiamme.

— Cosa c’è? — chiese l’uomo. — Che cos’ha?

— Per favore — disse Alis. L’uomo girò gli occhi sugli spettri che li guardavano, poi riprese a camminare lentamente. Lei gli si affiancò, imponendosi di non gridare nel vedere quelle rovine, le figure pallide che vagavano attraverso i gusci bruciati degli edifici, i cadaveri contorti in mezzo alla strada, dove si snodava il traffico.

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