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Roger Zelazny: La variante dell'unicorno

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Roger Zelazny La variante dell'unicorno

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Vincitore del premio Hugo per il miglior racconto in 1982.

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Roger Zelazny

La variante dell’unicorno

Bizzarria di fuochi, incunabolo di luce, si muoveva con una deliberazione lesta, quasi raffinata, entrando in esistenza e uscendone come un brandello di sera squarciato dalla tempesta; o, forse, le tenebre che inframmezzavano le esplosioni di luci erano più simili alla sua vera natura: turbini di ceneri nere che si univano e s’impennavano ritmicamente al suono smorzato del vento del deserto lungo il canale dietro gli edifici, vuoti eppure pieni come le pagine di libri non letti o come la pausa tra le note di una canzone.

Scomparso. Riapparso. Scomparso di nuovo.

Potenza, avete detto? Sì. Occorre una forza d’identità considerevole per manifestarsi prima o dopo il proprio tempo. O entrambe le cose.

Scomparendo e riapparendo, continuava ad avanzare. Si spostava nel pomeriggio caldo, e il vento cancellava le sue tracce. Naturalmente, solo quando lasciava tracce.

Una ragione. Deve sempre esserci una ragione. O più ragioni.

Esso sapeva perché si trovava lì; ma non perché si trovasse proprio lì , in quel particolare contesto.

Immaginava, avvicinandosi al profilo denso di desolazione della vecchia strada, che fra poco l’avrebbe scoperto. Comunque, sapeva che la ragione poteva giungere anche prima, o dopo. Eppure, l’attrazione era inequivocabile, e la forza del suo essere era tale che doveva trovarsi vicino a qualcosa.

Gli edifici erano antichi e cadenti e alcuni già schiantati a terra e tutti logori e polverosi e deserti. Erbacce crescevano fra le assi dei pavimenti. Uccelli facevano il nido sulle travi. Gli escrementi di creature selvatiche erano in ogni angolo; ed esso le conosceva tutte così come loro l’avrebbero riconosciuto, se si fossero incontrati.

S’immobilizzò, perché un suono esilissimo, imprevisto, era giunto da un punto più avanti, sulla sinistra. In quel momento, esso stava di nuovo entrando in esistenza e dispiegò la propria forma che svanì velocissima, come svanisce uri arcobaleno all’inferno; ma la presenza nuda restò al di là di ogni sottrazione.

Invisibile, eppure esistente, e torte, si mosse. La traccia. L’indizio. Più avanti. A sinistra. Oltre la parola sbiadita, SALOON, sull’asse in alto corrosa dal tempo. Oltre le due porte d’ingresso (una penzolava dai cardini).

Si fermò, scrutò.

Il banco a destra, coperto di polvere. Dietro, uno specchio crepato. Bottiglie vuote. Bottiglie rotte. La sbarra d’ottone, nera, incrostata. Tavoli a sinistra e sul fondo. Più o meno conservati.

Un uomo seduto al tavolo migliore. Con la schiena rivolta alla porta. Levis. Stivali da campagna. Camicia azzurra, stinta. Uno zaino verde appoggiato alla parete alla sua sinistra.

Davanti all’uomo, sul tavolo, è dipinta una scacchiera; è piena di macchie e di graffi, quasi cancellata.

Il cassetto dove lui ha trovato gli scacchi è ancora parzialmente aperto.

Lui non potrebbe mai, trovandosi di fronte a una scacchiera, non risolvere qualche problema di gioco o non ripetere una delle sue partite migliori, così come non potrebbe evitare di respirare, di far circolare il proprio sangue, o di mantenere una temperatura corporea stabile.

Esso si avvicinò, e forse nella polvere alle sue spalle si formarono impronte, ma nessuno le notò.

Anch’esso giocava a scacchi.

Restò a guardare l’uomo che ripeteva quella che forse era stata la sua partita migliore, alle preselezioni per i campionati mondiali di sette anni prima. Dopo quella volta lui, sorpreso di essere arrivato a tanto, era scoppiato, perché sotto pressione non riusciva mai a giocare bene. Però era sempre stato fiero di quella partita, e la riviveva spesso, come fanno tutti gli esseri sensibili con certi momenti particolarmente importanti della loro esistenza. Per venti minuti circa, nessuno avrebbe potuto raggiungerlo.

Era stato puro e fiero e deciso e perspicace. Si era sentito in splendida forma.

Esso si sistemò dall’altra parte della scacchiera e guardò. L’uomo completò la partita, con un sorriso. Poi rimise a posto gli scacchi, si alzò e prese una lattina di birra dallo zaino. L’aprì.

Quando tornò, scoprì che il pedone del re bianco era stato portato in e4. Aggrottò la fronte. Voltò la testa e scrutò attorno al bar e lo specchio lercio gli restituì l’occhiata perplessa. Guardò sotto il tavolo. Bevve un’altra sorsata di birra e si sedette.

Allungò la mano e aprì lui di re portando il pedone in e5. Un istante dopo vide il cavallo avversario in g1 sollevarsi lentamente in aria e portarsi in f3. Per un lungo istante lui fissò il vuoto dall’altra parte del tavolo prima di spostare anche il proprio cavallo da g8 in f6.

Il cavallo bianco si spostò per mangiargli il pedone. A questo punto lui lasciò perdere la novità della situazione e spostò il proprio pedone in d6. A quel punto si dimenticò completamente dell’assenza di un avversario tangibile, mentre il cavallo bianco tornava in f3. Si arrestò un attimo per bere un sorso di birra, ma aveva appena deposto la lattina sul ripiano del tavolo che la latina si sollevò di nuovo in aria, passò sopra la scacchiera e rimase sospesa. Seguì un gorgoglio. Poi la lattina cadde per terra, rimbalzò e tintinnò con un suono di contenitore vuoto.

— Mi spiace — disse lui, levandosi in piedi e tornando verso il proprio zaino. — Te ne avrei offerta una se avessi immaginato che ti sarebbe piaciuta.

Aprì due nuove lattina, ritornò verso il tavolo, ne mise una accanto all’estremità opposta del tavolo, tenendo stetta nella destra l’altra.

— Grazie — disse una voce educata e precisa da un punto non ben determinato al di là.

La lattina venne levata, inclinata leggermente e rimessa sul ripiano.

— Io mi chiamo Martin — disse.

— Puoi chiamarmi Tlingel — rispose l’altro. — Avevo pensato che la tua specie fosse estinta. Sono contento che almeno tu sia sopravvissuto in modo da permettermi questa partirà.

— Uh? — fece Martin. — C’eravamo ancora tutti l’ultima volta che mi sono guardato in giro… un paio di giorni fa.

— Non importa. A questo provvederò più tardi — replicò Tlingel. — Mi sono lasciato ingannare dall’apparenza di questo posto.

— Oh. Si tratta di una città fantasma. Io giro parecchio col mio sacco in spalla.

— Non importa. Io sono vicino al punto culminante della vostra carriera sotto il punto di vista della specie. Lo sento bene.

— Temo di non seguirti.

— Non sono ben sicuro che lo vuoi veramente. Immagini che intendi mangiarmi il pedone, no?

— Forse. Sì, è così. Di cosa parli?

La lattina di birra si sollevò di nuovo in alto.

L’entità invisibile trasse un altro sorso.

— Be’ — disse Tlingel, — per dirla semplicemente, i tuoi… successori… si fanno ansiosi. E dal momento che il tuo posto nell’ordine delle cose è tanto importante, io ho avuto abbastanza potere per venire qui e controllare come sta la situazione.

— Successori? Non capisco.

— Hai visto dei grifoni in questi ultimi tempi?

Martin fece una risatina.

— Ho sentito delle storie — rispose. — E ho visto delle foto di quello che sarebbe stato abbattuto a fucilate sulle montagne rocciose. Naturalmente si tratta di una balla.

— È naturale che debba sembrarti così. Succede sempre quando si tratta di animali mitologici.

— Stai cercando di dirmi che era tutto vero?

— Certo. Il tuo mondo è messo male. Quando di recente è morto l’ultimo orso grizzly, si è aperta la strada ai grifoni… proprio come la morte dell’ultimo eporni aprì la strada allo yeti, e il dodo al mostro di Loch Ness. il piccione viaggiatore al sasquatch e la balena azzurra al kraken, l’aquila americana al basilisco.

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