Raymond Jones - Il figlio del pifferaio

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Il figlio del pifferaio: краткое содержание, описание и аннотация

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Il suo funzionamento si basava sul principio delle correnti magnetiche, non più su quelle elettriche. La scoperta delle correnti magnetiche era stata annunciata soltanto pochi mesi prima che lui tornasse a casa dalla guerra. L’applicazione pratica della scoperta era stata fulminea.

E Jim cominciò a intravedere la vera origine dell’energia che alimentava la macchina. Questa risiedeva nelle grandi correnti di forza magnetica e gravitazionale che scorrevano tra i pianeti e i soli dell’universo. Potente quanto l’energia atomica, e altrettanto illimitata nelle sue risorse, essa non richiedeva nessun macchinario tremendamente pericoloso per essere imbrigliata. Il principio del coordinatore d’energia era semplice.

La scomoda, contorta posizione in cui si trovava cominciò a fargli dolere i muscoli, al punto da costringerlo a uscir fuori a distendere le gambe. Mentre sostava, ritto in piedi, accanto al motore, ricominciò a riflettere sullo scopo che quella possente macchina poteva avere, in quella strana località. Perché mai era stato costruito là, e quale uso potevano mai avere le sue energie?

Cominciò a camminare avanti e indietro, per ripristinare la circolazione nelle gambe, e intanto cercò di seguire lo scorrere dell’energia attraverso il motore, per determinare dove, e quanta tensione esso dovesse sopportare.

Le sue ricerche lo condussero ancora più in basso, a un ulteriore livello sotterraneo dell’edificio, e qui trovò ciò che stava cercando, la tensione alla quale la tremenda potenza del motore veniva accoppiata.

Qui, però, si trovò davanti a qualcosa che sfuggiva alla sua comprensione, poiché il generatore di tensione era anch’esso una macchina di strana concezione, e nessuna delle sue caratteristiche era stata trattata dal corso per corrispondenza.

La macchina al piano superiore intercettava le correnti magnetiche dello spazio, selezionando e concentrando quelle che scorrevano in una data direzione.

Poi, l’energia di quelle correnti veniva convogliata nella macchina in questa sala più sotto, ma non c’era nessun punto di reazione contro cui l’energia potesse venir applicata.

A meno che…

La conclusione logica, inevitabile s’impose nella sua mente. C’era un solo punto concepibile di reazione.

Rimase completamente immobile e un fremito lo percorse tutto. Fissò le lisce pareti tutt’intorno. Metalliche, dovunque. E quel locale: era più stretto di quello superiore — come se l’intero edificio avesse la forma d’un fuso, dalla cupola che sporgeva là sopra, dal terreno, fino al pavimento dell’ultimo sotterraneo.

L’unico punto possibile di reazione era l’edificio stesso.

Ma non era un edificio, era un vascello.

Jim risali nella sala del motore, su per la rampa, incespicando e aiutandosi con le unghie, poi proseguì tenacemente fino alla camera sovrastante. Era ormai a metà strada sulla rampa superiore, quando udì un’altra volta la voce.

«È lei, signor Ward? Ho quasi finito e sarò da lei fra un attimo. Ha completato le riparazioni? È stato molto difficile?»

Jim esitò, ma non rispose. C’era qualcosa, nella tonalità di quella voce, che gli dava i brividi. Prima non se n’era accorto, pieno di curiosità come era, e d’interesse per quel posto. Ma adesso avvertiva la qualità ultraterrena di quella voce… inumana.

Capi all’improvviso che non si trattava d’una voce, ma che le parole erano state formate nel suo cervello come se fosse stato lui stesso a pronunciarle. Aveva quasi raggiunto la sommità della rampa e si stava tirando su, carponi, sul pavimento della stanza superiore, quando colse l’ombra della porta che si chiudeva e udì il clangore metallico quando sbatté nell’incorniciatura. La stanza era ermeticamente chiusa, e soltanto le piccole finestre lasciavano passare un po’ di luce.

Si alzò, drizzandosi completamente, e si calmò al pensiero che il vascello non poteva volare. Non poteva ancora decollare, con tutto quel lavoro di riparazione ancora da fare, e lui non aveva nessuna intenzione di finirlo, di questo era fermamente convinto.

«Quilcon!» chiamò. «Si faccia vedere. Chi è lei, e cosa vuole da me?»

«Voglio che lei finisca le riparazioni, e in fretta», rispose all’istante la voce. «E in fretta… devono esser terminate in fretta».

C’era una nota di disperazione e sconforto in quella voce, che cominciava a far effetto su Jim. Poi, egli colse il lieve movimento sulla parete accanto a lui.

In un piccolo emisfero trasparente appeso sulla parete si trovava la lumaca che Jim aveva intravisto nell’ufficio postale, la creatura che la direttrice aveva definito «armadilio». Non l’aveva notata, quand’era entrato per la prima volta nella cupola. Ora la creatura si stava muovendo con lente pulsazioni che rigonfiavano la sua superficie, sulla quale spiccava una rete di linee livide, come un intrico di vene.

Da quel piccolo emisfero dalle sfumature dorate si dipartiva un groviglio di cavi che andavano a strumenti e a scatole di raccordo disseminati per tutto il locale. All’interno dell’emisfero un centinaio di minuscoli pseudopodi stringevano le estremità dei cavi.

Era una nave… e quella lumaca all’interno dell’emisfero era il suo incredibile pilota alieno. Jim lo seppe all’istante, diventando conscio della realtà sgomentante e gelida che gli giungeva in ondate di pensiero da quella lumaca chiamata Quilcon, facendo irruzione nella sua mente. Erano una nave e un pilota giunti da fuori della Terra… dagli sconfinati abissi dello spazio.

«Cosa vuole da me? Chi è lei?» chiese Jim Ward.

«Sono Quilcon. Lei è un buon allievo. Impara bene e subito».

«Cosa vuole da me?»

«Voglio che lei ripari il motore danneggiato».

C’era qualcosa che non andava in quella creatura. Jim lo sentiva, sia pure come qualcosa d’impalpabile. Un’aura d’infermità. Una disperata sollecitazione che finì per invadergli del tutto la mente.

Ma c’era qualcos’altro in primo piano nella mente di Jim. L’orrore causato dalla creatura aliena si attenuò e Jim poté contemplare quel miracolo che era giunto fin qui, all’umanità.

«Farò un patto con lei», disse con calma. «Mi dica come costruire una nave come questa, ed io riparerò il motore per lei».

«No, no! Non c’è tempo per questo. Devo fare in fretta…»

«Allora me ne andrò e non farò più nessuna riparazione».

Si avviò verso la porta, ma subito fu afferrato da un’onda paralizzante, come se avesse stretto in mano due elettrodi carichi. La morsa si rilassò soltanto quando arretrò dalla porta.

«Il mio potere è debole», disse Quilcon, «ma ancora per molti giorni sarà forte abbastanza per questo. Troppi, perché lei possa sopravvivere senza cibo e acqua. Ripari il motore, e io la lascerò andare».

«Quello che le chiedo è un prezzo troppo alto da pagare, per avere il mio aiuto?»

«Lei è stato pagato abbastanza. Può insegnare alla sua gente a costruire macchine a coordinamento d’energia. Non è sufficiente?»

«La mia gente vuol costruire motori come questo e viaggiare nello spazio».

«Questo non glielo posso insegnare. Non so farlo. Non sono stato io a costruire questa nave».

La sua mente fu spazzata da impetuose ondate di pensieri turbati, ma la tensione si acquietò in lui. Il primo timore che aveva provato davanti a una vita totalmente aliena lasciò la sua mente, e Jim provò una strana affinità con quella creatura. Era ferita e malata, questo l’aveva capito, ma non riusciva a credere che non sapesse com’era costruita la nave.

«Coloro che hanno costruito questa nave vengono spesso a commerciare sul mio pianeta», spiegò Quilcon. «Ma noi non possediamo navi come questa. La maggior parte di noi non desidera altro che passar la propria vita tra le caverne umide e le spiagge soleggiate del nostro mondo, ma io ardevo dal desiderio di vedere gli altri mondi, quelli da cui queste navi venivano.

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