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Henry Kuttner: Mimetizzazione

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Henry Kuttner Mimetizzazione

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Per la prima volta Brown mostrò d’avere ascoltato quella voce remota. Si voltò verso Talman.

«Sta bluffando?»

Talman annuì lentamente. «Ma certo. È inoffensivo».

«È un bluff», ribadì Cunningham, senza alzare gli occhi dal suo lavoro.

«No», rispose l’altoparlante, sempre calmo, «non sto bluffando. Fai attenzione, tu, con quel pannello. Quei fili sono collegati con la centrale atomica. Se pasticcerai coi contatti, ci farai saltare tutti».

Cunningham fece un balzo all’indietro dal labirinto dei fili che uscivano come tanti serpenti da un pannello di bakelite, davanti a lui. Fern, a qualche passo da lui, si girò a guardarlo col suo viso scuro: «Vacci piano», gli disse. «Dobbiamo esser certi di ciò che stiamo facendo».

«Chiudi il becco», grugnì Cunningham. «Io so quello che faccio. Forse è proprio questo che teme il transplant. Starò molto attento a tenermi lontano dall’impianto atomico, ma…» Fece una pausa per studiare l’intreccio dei cavi. «No. Questi non riguardano l’impianto atomico… credo. Non il circuito principale, in ogni caso. Ora, se io interrompo questo collegamento…» La sua mano guantata si alzò, impugnando una cesoia dal manico isolante.

L’altoparlante disse: «Cunningham… non farlo». Cunningham appoggiò la cesoia al cavo. L’altoparlante sospirò.

«Tu per primo, allora. Ecco!»

Talman sentì la visiera del casco sbattergli dolorosamente contro il naso. L’immensa stanza parve dare un’energica sgroppata, mentre lui barcollava in avanti, incapace di fermarsi. Tutt’intorno a lui vide le figure in tuta spaziale che incespicavano grottesche. Brown perse l’equilibrio e stramazzò in avanti.

Cunningham era stato sbattuto tra i fili, quando la nave aveva decelerato all’improvviso. Adesso era appeso a quel groviglio come una mosca intrappolata in una ragnatela, con le braccia e le gambe, e la testa, che sussultavano e si contorcevano spasmodicamente. La furia di quella diabolica danza aumentò.

«Tiratelo fuori da li!» gridò Dalquist.

«Aspetta!» urlò Fern. «Stacco la corrente…» Ma non sapeva come. Talman, la gola arida, osservò il corpo di Cunningham arcuarsi e contorcersi, scuotendosi tutto, nella spasmodica agonia. All’improvviso vi fu uno scricchiolio d’ossa. E Cunningham continuò a sussultare, ma come un pupazzo di pezza, la testa che ciondolava grottesca.

«Tiratelo giù», sbottò Brown, ma Fern scosse il capo. «Cunningham è morto. E quei cavi sono pericolosi».

«Morto? E come?»

Sotto i baffi sottili le labbra di Fern si schiusero in un sorriso privo di umorismo. «Un tizio in preda a un attacco epilettico può rompersi l’osso del collo».

«Già», annuì Dalquist, chiaramente scosso. «Si è proprio rotto l’osso del collo. Guardate in che modo gli dondola la testa».

«Fatti attraversare da una corrente alternata a venti cicli, e verranno le convulsioni anche a te», ribatté Fern.

«Non possiamo lasciarlo là!»

«Possiamo», disse Brown, corrugando la fronte. «Tenetevi tutti lontani dalle pareti». Infuriato, fissò Talman. «Perché non hai…»

«Ma si, lo so. Ma Cunningham avrebbe dovuto avere il buon senso di tenersi lontano da quei cavi scoperti».

«Sono pochi i fili isolati, qua in giro», ringhiò l’uomo grasso. «Avevi detto che il transplant era innocuo».

«Ho detto che non aveva mobilità. E che non era telepate». Talman si rese conto che la sua voce suonava sulla difensiva.

Fern disse: «Non dovrebbe esserci un segnale che suona tutte le volte che una nave accelera o decelera? Dev’essere stato proprio il transplant a interromperlo, per coglierci alla sprovvista».

Alzarono gli occhi alla vasta cavità ronzante, bagnata da quella fosca luce giallastra. Talman si sentì cogliere da un accesso di claustrofobia. Gli parve che le pareti stessero per crollargli addosso… come una gigantesca mano che si stesse chiudendo su di lui.

«Potremmo fracassare le cellule dei suoi occhi», suggerì Brown.

«Trovale». Fern gli indicò l’immenso labirinto dell’impianto.

«Tutto quello che dobbiamo fare è staccare il transplant. Tagliare i suoi collegamenti. Dopo, sarà come morto».

«Per sfortuna», disse Fern, «Cunningham era l’unico ingegnere elettronico fra noi. Io sono soltanto un astrofisico!»

«Non importa. Basterà staccare una spina, e il transplant cesserà di funzionare. Questo possiamo pur farlo!»

L’atmosfera si faceva sempre più tesa. Ma intervenne Cotton, un ometto dagli occhi azzurri, ammiccanti, a riportare la calma:

«La matematica… la geometria… dovrebbero aiutarci. Noi vogliamo localizzare il transplant, e…» Alzò lo sguardo e rimase come pietrificato. «Siamo fuori rotta!» esclamò infine, umettandosi le labbra secche. «Vedete quella spia luminosa?»

Lassù in alto, Talman fissò il grande globo azzurro. Sulla sua scura superficie risplendeva chiaramente un punto rosso. Il transplant sta correndo ai ripari. La Terra è il posto più vicino dove può ricevere aiuto. Ma ci rimane ancora tempo in abbondanza. Non sono il tecnico specializzato che era Cunningham, ma neppure un completo idiota». Non guardò il corpo che continuava a sussultare, appeso ai fili. «Non c’è bisogno di provare ogni collegamento della nave».

«Va bene. Occupatene tu, allora», grugnì Brown.

Impacciato nella sua tuta, Fern raggiunse un’apertura quadrata al centro del pavimento, e scrutò una grata metallica venticinque metri più sotto. «Bene. Laggiù c’è l’alimentatore per il carburante. Nbn c’è bisogno di rintracciare i collegamenti per tutta la nave. Il carburante viene scaricato da quel tubo principale, là sopra. Ora, guardate: tutto ciò che è collegato con l’energia atomica è stato contrassegnato col rosso. Visto?»

Videro. Qua e là, su piastre e pannelli, c’erano enigmatici segni rossi. Altri simboli erano in azzurro, nero e bianco.

«Ora, partiamo da questa premessa», proseguì Fern. «Quanto meno in via provvisoria. Il rosso rappresenta l’energia atomica. L’azzurro… il verde… uhm».

D’un tratto Talman disse: «Qui non vedo niente che assomigli all’involucro del cervello di Quentin».

«Ti aspettavi davvero di vederlo?» gli chiese, sarcastico, l’astrofisico. «Sarà infilato in un buco imbottito da qualche parte. Il cervello umano può sopportare una gravità maggiore che il resto del corpo, ma sette G in ogni caso è il massimo. Il che, incidentalmente, vale anche per noi. Non valeva la pena dare a questa nave la capacità di accelerare di più. In ogni caso il transplant non avrebbe potuto sopportare più di quanto possiamo noi».

«Sette G», fece Brown, pensoso.

«Una simile accelerazione farebbe perdere i sensi anche al transplant. Ma deve restar cosciente, se vuol pilotare l’astronave attraverso l’atmosfera terrestre. Abbiamo tempo in abbondanza».

«Adesso stiamo andando molto lenti», interloquì Dalquist.

Fern lanciò un’occhiata al globo azzurro. «Pare di sì. Lasciate che ci lavori sopra». Srotolò una corda che aveva alla cintura, e si legò saldamente a uno dei pilastri centrali. «Questo ci garantirà da qualunque futuro incidente».

«Non dovrebbe essere così difficile rintracciare un circuito», osservò Brown.

«Di solito no. Ma in questa sala hanno messo tutto: i controlli della centrale atomica, il radar, e perfino anche il lavello della cucina. E tutti questi segni sono soltanto ad uso dei costruttori. Non c’è mai stato nessun progetto standard di questa nave. È un modello unico. Posso trovare il transplant, ma ci vorrà del tempo. Perciò chiudi il becco e lasciami lavorare».

Brown aggrottò la fronte ma non disse niente. La testa calva di Cotton era imperlata di sudore. Dalquist strinse le braccia intorno a un pilastro metallico e attese. Talman alzò di nuovo lo sguardo verso la stretta piattaforma che correva tutt’intorno alle pareti. Il globo azzurro mostrava sempre il punto rosso in lento movimento.

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