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Harlan Ellison: Un ragazzo e il suo cane

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Harlan Ellison Un ragazzo e il suo cane

Un ragazzo e il suo cane: краткое содержание, описание и аннотация

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Ancora un premio Nebula e ancora una storia sulla fine del mondo, ma il punto di vista di Ellison è completamente diverso da quello della Willis e anche l’impostazione delle due storie non ha nulla in comune: laddove la Willis è dolce e sensibile Ellison è duro e scioccante, brutale come soltanto lui sa esserlo. C’è una cosa tuttavia che queste due storie hanno in comune, a parte il tema: entrambe fanno ormai parte della storia della fantascienza moderna, e a ragione!

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Lo guardai e vidi che non stava scherzando. Mi rimisi i pantaloni e le scarpe da tennis e uscii dalla caldaia. Ci allontanammo e lui mi fece una predica di mezz’ora a proposito delle nostre responsabilità reciproche. Io ero d’accordo con lui e gli dissi che l’avrei seguito, come sempre, e lui mi minacciò dicendomi che avrei fatto bene a farlo, perché c’erano un paio di singoli piuttosto in gamba in giro per la città che sarebbero stati molto contenti di avere un abile segugio come lui. Gli dissi che non mi piaceva essere minacciato e che avrebbe fatto meglio a fare attenzione a dove metteva i piedi, o gli avrei rotto una gamba. Lui si infuriò e se ne andò. Lo mandai a farsi fottere e ritornai alla caldaia per vedermela ancora con quella Quilla June.

Ma quando cacciai dentro la testa, lei mi stava aspettando, con una delle pistole di quei vagabondi. Mi diede una bella botta sopra l’occhio destro, e io caddi di traverso sullo sportello e svenni.

IV

— Te l’avevo detto che era una poco di buono. — Mi guardò mentre ripulivo la ferita con un disinfettante preso dal mio equipaggiamento e la spalmavo con tintura di iodio. Quando trasalii lui sorrise compiaciuto.

Ritirai i medicinali e rovistai nella caldaia, raccogliendo le munizioni rimaste e lasciando la Browning per la più pesante 30-06. Poi trovai qualcosa che doveva essere scivolata fuori dai suoi vestiti.

Era una piccola piastra di metallo, di circa dieci centimetri per quattro. Sopra c’era una fila di numeri e di fori, disposti a caso. — Che cos’è questo? — chiesi a Blood.

Lui lo guardò e annusò.

— Deve essere una carta di identità di qualche tipo. Forse è quella che ha usato per uscire dalla città sotterranea.

Questo mi fece decidere.

Me la cacciai in tasca e mi incamminai. Verso lo scivolo di accesso.

— Dove diavolo stai andando? — gridò Blood alle mie spalle. — Torna indietro, ti farai uccidere!

— Ho fame, dannazione!

— Albert, figlio di puttana, torna qui!

Continuai a camminare. Avrei trovato quella cagna e gliel’avrei fatta pagare. Anche se avessi dovuto andare là sotto per trovarla.

Mi ci volle un’ora per arrivare allo scivolo di accesso che portava a Topeka. Credetti di scorgere Blood che mi seguiva a distanza. Non me ne importava niente. Ero furioso.

Poi, eccolo. Un pilastro di lucido metallo nero, alto, diritto e privo di scanalature. Aveva un diametro di circa sei metri, perfettamente piatto sulla cima, e scompariva direttamente nel terreno. Camminai dritto verso di esso e frugai in tasca per prendere la tessera metallica. Poi qualcosa mi tirò il pantalone destro.

— Ascoltami, idiota, non puoi andare là sotto!

Gli mollai un calcio, ma lui si fece di nuovo sotto.

Ascoltami!

Io mi voltai e lo fissai.

Blood si sedette: la polvere si alzò con uno sbuffo intorno a lui. — Albert…

— Mi chiamo Vic, piccolo bastardo.

— D’accordo, d’accordo, niente prese in giro. Vic. — Il suo tono si addolcì. — Vic. Dài, amico. — Stava cercando di farmi ragionare. Io mi sentivo davvero ribollire di rabbia, ma lui cercava di rimanere lucido. Scrollai le spalle e mi accovacciai vicino a lui.

— Ascoltami — disse Blood. — Quella ragazza ti ha proprio fatto uscire di senno. Tu lo sai che non puoi andare laggiù. È tutto ordinato e pulito, e si conoscono tutti: odiano i singoli. Troppe bande hanno fatto razzie nei sotterranei, violentato le donne, rubato il loro cibo, avranno messo delle difese. Ti uccideranno, amico!

— Che cosa diavolo te ne importa? Dici sempre che te la caveresti meglio senza di me. — Questo lo fece vacillare.

— Vic, siamo insieme da quasi tre anni. Nel bene e nel male. Ma questo può essere peggio. Ho paura, ragazzo. Paura che tu possa non tornare indietro. E ho fame, e dovrò andare a cercarmi qualcuno che si prenda cura di me… e tu sai che molti singoli sono entrati nelle bande, ora, e non sarò nient’altro che un bastardo. Non sono più così giovane. E sono ferito.

Lo capivo. Stava dicendo delle cose sensate. Ma tutto quello a cui riuscivo a pensare era quella cagna, quella Quilla June che mi aveva colpito. E poi rivedevo l’immagine delle sue tette morbide e risentivo i suoi mugolii quando ero dentro di lei, e scossi la testa, e capii che dovevo pareggiare il conto.

— Devo farlo, Blood. Devo.

Respirò profondamente e si accasciò ancor di più. — Non ti accorgi nememnto di quello che ti ha fatto, Vic.

Mi alzai. — Cercherò di tornare in fretta. Mi aspetterai…?

Rimase a lungo in silenzio e io attesi. Alla fine disse: — Per un po’. Forse sarò qui e forse no.

Io capii. Mi guardai intorno e cominciai a girare intorno al pilastro di metallo nero. Finalmente trovai una fessura nel pilastro e vi feci scivolare la tessera di metallo. Ci fu un debole ronzio, poi una sezione del pilastro si dilatò. Io non avevo neppure visto le linee che delimitavano le sezioni. Si aprì un foro circolare e io mossi un passo attraverso di esso. Mi voltai e vidi Blood che mi guardava. Ci guardammo mentre il pilastro continuava a ronzare.

— Arrivederci, Vic.

— Abbi cura di te, Blood.

— Torna in fretta.

— Farò del mio meglio.

— Sì. Va bene.

Poi mi voltai ed entrai. Il portale di accesso a forma di iride si chiuse dietro di me.

V

Avrei dovuto saperlo. Avrei dovuto sospettarlo. Certo, ogni tanto una pollastra sale per vedere che aspetto ha la superficie, che cosa è successo alle città; certo, capitava. Perché le avevo creduto quando, rannicchiata vicino a me in quella caldaia soffocante, mi aveva detto che voleva vedere com’era quando una ragazza lo fa con un uomo, che tutti i film che aveva visto a Topeka erano sdolcinati, noiosi e banali, e le ragazze a scuola parlavano dei film porno ed una di loro aveva un librettino di otto pagine che lei aveva letto con gli occhi spalancati dalla meraviglia… certo, le avevo creduto. Era logico. Avrei dovuto sospettare qualcosa quando aveva lasciato quella piastra di metallo. Era troppo facile. Blood aveva cercato di dirmelo. Scemo? Sì!

Nell’attimo in cui l’iride si richiuse vorticando dietro di me, il ronzio divenne più intenso ed una luce fredda si diffuse dalle pareti. Parete. Era uno scompartimento circolare, e i lati delle pareti erano solo due: interno ed esterno.

La parete pulsava di luce e il ronzio aumentava, e poi il pavimento su cui appoggiavo i piedi si dilatò, proprio come il portello esterno. Ma io ero lì immobile, come un topo in un cartone animato, e finché non guardavo in basso, era a posto, non sarei caduto.

Poi mi decisi. Mi lasciai cadere attraverso il pavimento, e l’iride si chiuse sopra la mia testa; stavo cadendo lungo il tubo, guadagnando velocità, ma non troppa, solo continuavo a cadere con regolarità. Adesso sapevo che cos’era uno scivolo d’accesso.

Continuavo a scendere, e di quando in quando vedevo scritte del tipo LIV 10 o ANTIPOLL 55 e POMPA 6 sulle pareti, e distinguevo a fatica le divisioni a forma di spicchio di un’iride. Ma non smisi mai di cadere.

Finalmente arrivai in fondo e lì c’era scritto TOPEKA AB. 22.860 sulla parete; mi piegai un poco sulle ginocchia per attutire l’impatto, ma fu comunque molto debole.

Usai di nuovo la tessera di metallo, e l’iride (una molto più grande questa volta) si aprì vorticando, e vidi per la prima volta una città sotterranea.

Si stendeva di fronte a me; venti miglia fino al debole chiarore dell’orizzonte di metallo dove la parete dietro di me si curvava, si curvava fino a diventare un cerchio levigato che ritornava indietro, indietro, indietro fino a dove mi trovavo. Ero sul fondo di un grosso tubo di metallo che si estendeva fino al soffitto a cinquecento metri sopra la mia testa e per venti miglia in lunghezza. E sul fondo di quella lattina qualcuno aveva costruito una città che assomigliava in tutto e per tutto ad una di quelle fotografie che si vedevano nei libri delle biblioteche in superficie. Avevo visto una città come questa in un libro. Proprio come questa. Piccole case linde, e stradine ondulate, e prati ben curati, e il quartiere degli affari e tutte quelle altre cose che una Topeka doveva avere.

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