Джанни Родари - Novelle fatte a macchina
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― Non ho capito un cavolfiore, ― risponde Grillo educatamente. ― A Civitavecchia parliamo differente.
Quel tale fa ancora due o tre volte: ― Quick! Quick! ― Poi chiama due schiavi che fanno alzare in piedi il postino, lo ficcano in una barca piena di gente in divisa da antichi egiziani e gli mettono in mano un remo.
― Quack , ― fa il comandante della barca.
― Questa l’ho capita, ― dice Grillo, ― vuoi dire: rema.
Appena comincia a remare lui smettono tutti gli altri, perché non c’è più bisogno di loro: basta Grillo a far volare la barca giù per il Nilo, a una velocità tale che i coccodrilli si scansano protestando e gli struzzi, sulla riva, restano indietro un bel pezzo. Il comandante della barca è così contento che diventa matto per la contentezza, e lo debbono legare.
Grillo intanto ha sgamato che qua lo stanno portando a dare una mano per costruire le piramidi d’Egitto. E così è, difatti nel deserto c’è una piramide a metà, migliaia di schiavi che corrono su e giù portando, spingendo, trascinando pietroni enormi; e c’è il Faraone che sgrida i suoi segretari. Anche lui fa: “ Quick! Queck! ” Ma capisce benissimo che il Faraone è scontento perché i lavori vanno avanti all’indietro e i suoi segretari se la fanno sotto per la paura di rimetterci la testa, comprese le orecchie.
“Una mano gliela do”, pensa Grillo, “non mi costa niente. Ma dopopranzo spesso. Arrivederci e grazie”.
Quegli spaventosi pietroni, lui li solleva senza stringersi la cintura. Ne butta su dodici alla volta con una mano e dodici con quell’altra, intanto che da tutte le parti arriva gente a fare: ― Ole! ― e ― Queck! Queck! ― e il Faraone per la meraviglia sviene e gli debbono mettere un gatto sotto il naso per farlo rinvenire (usanza faraonica). In un paio d’ore la piramide è finita: rancio speciale per gli addetti ai lavori, festeggiamenti popolari (rottura delle pignatte, corsa sugli asini, albero della cuccagna). Il Faraone vuole conoscere quello schiavo straniero e, un po’ con le mani, un po’ con le parole, gli domanda di dove viene:
― Babilonia?
― No, Eccellenza. Civitavecchia.
― Sodoma e Gomorra?
― Gliel’ho già detto, commendatore: Civitavecchia.
Il Faraone si stufa dell’interrogatorio e dice qualche cosa come: ma vai a quel paese. Grillo mantiene un prudente silenzio: negli interrogatori, si sa, è meglio dire il meno possibile. Mangia quando gli danno da mangiare, beve quando gli danno da bere, poi gli fanno segno che può dormire sotto una palma.
“Meno male”, pensa Grillo. “E adesso cerchiamo di dormire piano piano, a lungo, per tornare ai giorni nostri”.
Per un po’ ce la fa a far passare i secoli e i millenni, ma poi, la solita impazienza, comincia a domandarsi: “Sarà ora che mi svegli? Non sarà ora che mi svegli?”
Si sveglia in tempo per dare una mano a scavare il Canale di Suez, dove per fortuna trova uno di Civitavecchia, che si chiama Angeloni Martino ed è stato compagno di scuola del suo trisnonno, e gli paga da bere.
Quando si rimette a dormire, ha imparato la lezione. Ma l’ha imparata troppo bene. Si sveglia nell’albergo di Alessandria d’Egitto che i campionati mondiali sono già finiti. Hanno vinto tutti meno quelli di Civitavecchia. Il capo è rientrato in Italia col primo aereo, infuriatissimo. Angela è lì che gira il cucchiaino nella tazza del caffè.
― Bevi, ― dice. ― Ormai sarà freddo, perché l’hanno portato tre giorni fa. Si vede che ti hanno fatto il trucco per non lasciarti vincere: ti hanno dato un sonnifero potente. Il capo ha detto che farà causa. Fa niente. L’anno prossimo ci sono le Olimpiadi. Vincerai quelle.
― No, ― dice Grillo, ― non voglio più vincere niente. Col carico di famiglia che mi trovo, è inutile che vada in giro per l’universo a sollevare altri carichi.
― Allora, a me non mi sposi più?
― Ti sposo subito, anche la settimana passata.
― No, a me basta domani.
Prima di andare a Civitavecchia a sposarsi, però, fanno un bel viaggetto fino alle Piramidi. Grillo riconosce subito quella che ha fatto lui, con le sue mani postelegrafoniche. Però non dice nulla. I grandi campioni sono modesti. I più grandi campioni sono i più modesti di tutti. Così modesti che il loro nome non lo sa nessuno. Tutti i giorni della vita sollevano pesi spaventosi, ma non ci pensano nemmeno a farsi intervistare.
Pianoforte Bill e il mistero degli spaventapasseri
Lassù lassù, tra i monti della Tolfa, dove i funghi sono sempre porcini e le castagne non hanno mai il verme; ma qualche volta anche laggiù laggiù, nella Piana delle Lumache, dove le acque del Mignone vagano senza un’idea precisa, si aggira un solitario cowboy. Egli è Bill l’Oriolese, così soprannominato perché figlio di un allevatore di Coriolo Romano. I tolfetani, per evidenti ragioni, lo chiamano lo Straniero. Ma il suo vero nome di battaglia è Piano Bill.
Sentite nell’aria le celebri note della Canzone della Volpe, dal Microcosmo di Bela Bartók, numero 95, volume terzo, pagina 44 ? È Bill che la esegue, sul suo fedele pianoforte. Insieme essi scalano le pendici del Monte Tosto, o si accampano là, verso la Ripa Rossa, dove di nuovo vagano alla rinfusa le acque del Mignone. Insieme cavalcano, davanti Bill sul suo cavallo bianco, dietro il pianoforte, sul suo cavallo nero-pianoforte Bill. Piano Bill.
Quando si arresta per la notte il solitario cowboy, prima ancora di montare la tenda e accendere il fuoco per tener lontani gli sceriffi, scarica il pianoforte e accenna fuggevolmente le Trentatrè Variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli.
I contadini della vallata, mentre vanno a letto, si dicono l’un l’altro: ― Ecco Piano Bill che accenna fuggevolmente le Trentatre Variazioni. Ottimo il tocco.
Lo Sceriffo della Tolfa, che da giorni e giorni da la caccia a Piano Bill per ficcarlo dentro, segue l’eco come una pista sonora e tra sé gongola: ― Stavolta, Straniero, ti metto il sale sulla coda.
Difatti, mentre il solitario cowboy gusta un porcino arrostito sulla brace, lo Sceriffo gli si avvicina, gli si avvicina ancora e vieppiù, è pronto a scattare in nome della legge. Ma Bill, che ha l’orecchio assoluto, avverte lo spostamento d’aria e senza neanche voltarsi, gli fa: ― Fermo con le manette, Sceriffo. Qui siamo in territorio di Canale Monterano; non avete alcuna autorità né su di me ne sul mio fedele pianoforte.
― Sei furbo, Straniero, ― borbotta lo Sceriffo. ― Ma non te la caverai con una mazurka di Chopin il giorno che ti metterò il sale sulla coda.
Piano Bill solleva senza sforzo apparente un sopracciglio: ― Suono molto di rado Chopin, ― dice, ― e più che altro gli Studi. Ho notato che le Mazurke fanno piovere. Inoltre vorrei sapere perché mi state dando la caccia con tanto accanimento.
― Sei curioso, Straniero. Ma te lo dirò. Negli ultimi tempi sono scomparsi numerosi spaventapasseri. Più di dodici per l’esattezza. Svariati testimoni d’ambo i sessi ti accusano. Il Comune ha già acquistato la corda per impiccarti. È stato indetto fra i falegnami l’appalto per prepararti la cassa. Si fanno le cose in regola, noi, con i ladri.
Piano Bill riflette. Ha notato anche lui, nei suoi vagabondaggi solitari, una certa rarefazione degli spaventapasseri. Egli è pronto a scommettere sulla propria innocenza; tuttavia non dice nulla. Esegue alcune Scene del Bosco di Schumann e si corica tranquillamente nel suo sacco a pelo, dopo aver coperto il fedele pianoforte con l’apposito telone di plastica grigia. Lo Sceriffo si corica non lontano, deciso a catturare l’Oriolese con uno stratagemma quando si sarà ben bene addormentato. Succede però che si addormenta prima lui. Quando lo sente russare, Piano Bill ricarica il pianoforte sul cavallo, rimonta in sella egli stesso e riprende il suo fatale andare, costeggiando il corso sconclusionato del Mignone.
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