“Omicidio singolo?” Jenn chiese.
“Perché questo è un caso per il BAU?” Riley aggiunse.
Meredith tamburellò con le dita sulla scrivania.
“Immagino che probabilmente non lo sia” l’uomo esclamò. “Ma un’altra ragazza è scomparsa, qualche tempo prima, nella stessa cittadina, e non è ancora stata ritrovata. E’ un posto davvero piccolo, dove questo genere di cose in genere non avviene. La gente del luogo dice che nessuna di quelle ragazze era il tipo che scappava o andava con estranei.”
Riley scosse dubbiosamente la testa.
“Dunque, che cosa fa credere a tutti che sia l’opera di un serial killer?” domandò. “Senza un altro corpo, non è un po’ prematuro?”
Meredith alzò le spalle.
“In effetti, è così che la penso anch’io. Ma il capo della polizia di Angier, Joseph Sinard, è nel panico.”
La fronte di Riley si corrugò al suono di quel nome.
“Sinard” disse. “Dove ho già sentito quel nome?”
Meredith sorrise e disse: “Forse sta pensando all’assistente esecutivo del direttore dell’FBI, Forrest Sinard. Joe Sinard è suo fratello.”
Riley quasi roteò gli occhi. Ora aveva senso. Qualcuno in cima alla piramide alimentare dell’FBI era stato infastidito da un parente che aveva chiesto l’intervento del BAU. Aveva incontrato in passato casi in cui la politica aveva imposto la sua volontà.
Meredith aggiunse: “Dovete uscire da qui e scoprire se ci sia davvero un caso di cui occuparsi.”
“E che ne è del mio lavoro al caso Hatcher?” Jenn Roston chiese.
Meredith rispose: “Sono in tanti ad occuparsene al momento: tecnici, inquirenti e altri. Immagino che abbiano accesso a tutte le sue informazioni.”
Jenn annuì.
Poi Meredith aggiunse: “Possono fare a meno di lei per qualche giorno. Sempre che questo caso richieda tanto tempo.”
Riley stava provando davvero un misto di emozioni.
Non sapeva dire se voleva o meno lavorare con Jenn Roston ed inoltre non intendeva perdere tempo su un caso che probabilmente non avrebbe dovuto neppure arrivare al BAU.
Avrebbe preferito continuare ad insegnare a Blaine a sparare.
O fare altre cose con Blaine , pensò, soffocando un sorriso.
“Allora, quando partiamo?” Jenn chiese.
“Il prima possibile” Meredith rispose. “Ho chiesto al Capo Sinard di non spostare il corpo, finché non arriverete lì. Volerete fino a Des Moines, dove gli uomini del Capo Sinard v’incontreranno e vi accompagneranno fino ad Angier. E’ a circa un’ora da Des Moines. Dobbiamo riempire il serbatoio dell’aereo, e prepararlo alla partenza. Nel frattempo, non allontanatevi troppo. Il decollo avverrà in meno di due ore.”
Riley e Jenn lasciarono l’ufficio di Meredith. Riley andò dritta al suo ufficio, si sedette per un momento, guardandosi intorno senza scopo.
Des Moines, pensò.
Ci era stata soltanto qualche volta, ma era lì che sua sorella maggiore, Wendy, viveva. Le due sorelle, che si erano tenute lontane l’una dall’altra per anni, si erano rimesse in contatto il precedente autunno, quando il padre stava morendo. Era stata Wendy, e non Riley, ad essere accanto all’uomo quando era morto.
Pensare a Wendy fece riemergere in lei il senso di colpa, insieme ad altri brutti ricordi. Il padre era stato duro con Wendy, che era scappata di casa quando aveva solo quindici anni. Riley invece ne aveva cinque. Dopo la morte del padre, si erano promesse di tenersi in contatto, ma finora erano riuscite soltanto a videochattare.
Riley sapeva che avrebbe dovuto far visita alla sorella, quando le fosse stato possibile. Ma ovviamente, non subito. Meredith aveva detto che Angier distava un’ora da Des Moines, e che la polizia locale sarebbe andata a prenderle all’aeroporto.
Forse posso andare a trovare Wendy prima di tornare a Quantico, pensò.
Al momento, aveva un po’ di tempo da perdere prima che l’aereo del BAU decollasse.
E c’era un’altra persona che desiderava incontrare.
Era preoccupata per il suo partner storico, Bill Jeffreys. Viveva vicino alla base, ma erano diversi giorni che non lo vedeva. Bill soffriva della sindrome di PTSD, e Riley sapeva, per sua stessa esperienza, quanto era difficile riuscire a riprendersi.
Tirò dunque fuori il cellulare, e digitò un messaggio.
Pensavo di passare per qualche minuto. Sei a casa?
Attese per qualche minuto. Il messaggio risultava “spedito”, ma non era ancora stato letto.
Riley sospirò. Non aveva tempo di aspettare che Bill controllasse i suoi messaggi. Se lei voleva vederlo, prima di partire, doveva passare a casa sua subito, e sperare che ci fosse.
*
Il piccolo appartamento di Bill distava solo pochi minuti dall’edificio del BAU, nella città di Quantico. Quando, parcheggiata l’auto, si incamminò verso l’edificio, fu colpita ancora una volta da quanto quel posto fosse deprimente.
Non c’era nulla di particolarmente sbagliato nel condominio: era un ordinario edificio in mattoni rossi. Ma Riley non poteva fare a meno di ricordare quanto fosse bella la casa in periferia, dove Bill aveva vissuto prima del divorzio. Al confronto, quel posto non aveva alcun fascino, e ora lui ci viveva da solo. Non era una situazione felice per il suo migliore amico.
Riley entrò nell’edificio, e si diresse all’appartamento di Bill, posto al secondo piano. Bussò alla porta e aspettò.
Non ci fu alcuna risposta. Allora, bussò di nuovo e ancora nessuno rispose.
Tirò fuori il cellulare e constatò che il messaggio risultava ancora non letto.
Fu assalita da un senso di preoccupazione. Era successo qualcosa a Bill?
Mise la mano sulla maniglia della porta, e la girò.
Con suo grande sconcerto, la porta, che non era stata chiusa a chiave, si aprì.
Sembrava che l’appartamento di Bill fosse stato svaligiato. Riley restò immobile sulla porta per un istante, pronta ad impugnare la sua pistola per l’eventualità in cui un intruso fosse ancora all’interno.
Poi si rilassò. Ovunque erano sparsi cartoni vuoti di cibo, piatti e bicchieri sporchi. Quel posto era un porcile, é vero, ma si trattava di un porcile vissuto.
A quel punto si risolse a chiamare Bill.
Nessuno rispose.
Allora chiamò di nuovo.
Stavolta, le parve di aver sentito un lamento provenire da una stanza lì vicino.
Con il cuore in gola varcò la soglia della porta che conduceva nella camera da letto di Bill. La stanza era buia e le tende erano abbassate. Bill giaceva nel letto disfatto, con indosso vestiti sgualciti e lo sguardo verso il soffitto.
“Bill, perché non hai risposto quando ti ho chiamato?” chiese con ton irritato.
“Ti ho risposto” lui disse quasi sussurrando. “Non mi hai sentito. Potresti smettere di gridare?”
Riley vide una bottiglia semivuota di bourbon sul comodino. Improvvisamente, tutta la scena le si palesò davanti. Si sedette sul letto accanto a lui.
“Ho avuto una brutta nottata” Bill aggiunse, provando ad esibire un lieve sorriso forzato. “Tu sai com’è.”
“Sì, lo so” Riley rispose.
Dopotutto, la disperazione l’aveva indotta a ubriacarsi e conosceva bene i postumi delle sbornie.
Gli toccò la fronte sudata, immaginando quanto dovesse sentirsi male.
“Che cosa ti ha spinto a bere?” la partner gli domandò.
Bill gemette.
“Sono stati i miei ragazzi” l’altro rispose.
Poi, tornò silenzioso. Riley non vedeva da molto tempo i figli di Bill. Immaginava che ora avessero circa nove e undici anni.
“Che mi dici di loro?” Riley chiese.
“Ieri sono venuti a trovarmi. Non è andata bene. Questo posto era un porcile, e io ero così irascibile e nervoso. Non vedevano l’ora di andarsene. Riley, è stato terribile. Ancora una visita come questa, e Maggie non me li lascerà più vedere. Sta aspettando una scusa per tagliarli fuori dalla mia vita una volta per tutte.”
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