Iain Banks - Complicità

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Cameron, reporter del Caledonian e maniaco di computer game, si mette sulle tracce di un nemico crudele, un uomo solo che si erge a giudice, giuria e boia di tutti coloro che hanno commesso un errore troppo grave per essere perdonato. Quale oscura complicità lega Cameron all’inafferrabile serial-killer?

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Eddie si appoggia allo schienale, ridendo. «Appunto», dice. «Tu dovevi scrivere un articolo sul whisky…»

«Sull’adulterazione del whisky.»

«…e invece praticamente finisci con il dire che Ernest Saunders è uno stronzo e un bugiardo.»

«Un grosso stronzo e un bugiardo; lui…»

«Cameron!» esclama Eddie, seccato, togliendosi di nuovo gli occhiali e battendoli sui fogli. «Anche ammesso che questo articolo non arrivi a essere chiaramente diffamatorio…»

«Ma non si può guarire dalla demenza senile!»

«Non ha importanza, Cameron! Questo fatto non deve entrare in un articolo sul whisky.»

«Sull’adulterazione del whisky», ripeto, imbronciato.

«Ah, rieccolo!» sbotta Eddie, poi si alza e si dirige verso le tre grosse finestre alle sue spalle. Si siede per metà sul davanzale di legno, appoggiandosi con le mani. «Dio mio, ragazzo, sei proprio impossibile quando ti metti in testa qualcosa!»

Dio mio, come odio Eddie quando mi chiama «ragazzo».

«Lo pubblichi o no?» gli chiedo.

«Così com’è, sicuramente no. Dovrebbe finire sulla prima pagina del supplemento del sabato, Cameron; è destinato a quelli che si sono presi una bella sbronza la sera prima, perché se lo leggano in vestaglia e ci sbriciolino sopra la brioche; com’è ora, potresti già considerarti fortunato se te lo pubblicassero sull’ultima pagina del Private Eye. »

Lo fulmino con lo sguardo.

«Cameron, Cameron», mormora Eddie, sfregandosi il mento. Pare dolorosamente colpito dalla mia reazione. Ha l’aria stanca. «Tu sei un bravo giornalista, scrivi bene, rispetti le scadenze e so che hai ricevuto un’offerta per andare nel sud, con un incarico migliore e più soldi; inoltre sia Andrew sia io ti diamo più libertà d’azione di quanto meriti, almeno secondo certe persone che lavorano qui. Tuttavia, se mi chiedi di scrivere un articolo sul whisky per il supplemento del sabato, be’, noi ci aspettiamo un pezzo che abbia a che fare con il whisky e non un manifesto della lotta di classe. È proprio come quell’articolo sulla televisione che hai fatto l’anno scorso.» (Se non altro evita di far cenno ai risultati disastrosi del mio viaggetto all’estero.) Si china in avanti e osserva i fogli. «Insomma, leggi qua: obbligare Ernest Saunders a bere tanto whisky fino a che il suo cervello non ritorni allo ‘stato bovinamente spugnoso in cui lui stesso ha ammesso che si trovava alla fine del processo Guinness’. Questa è…»

«È una battuta!» protesto.

«A me sembra un’istigazione! Che cosa stai cercando di…»

«A Muriel Gray gliel’hai lasciata passare.»

«Non l’avrei fatto, se l’avesse messa in questi termini.»

«Be’, allora chiedi una verifica legale ai nostri avvocati, e loro…»

«Non ho intenzione di chiedere una verifica legale, Cameron, perché non ho intenzione di pubblicarlo.» Scuote la testa. «Cameron», aggiunge con un sospiro, allontanandosi dalla finestra e sedendosi di nuovo sul trono, «devi imparare a trovare il senso della misura.»

«E ora, che succede?» replico, ignorando il consiglio e indicando l’articolo.

Eddie sospira. «Riscrivilo, Cameron. Cerca di diluire il vetriolo, invece di continuare a battere sui filtri all’asbesto.»

Continuo a fissare i fogli. «Questo significa che perderemo lo spazio, vero?»

«Sì», conferma Eddie. «Anticiperò di una settimana la serie sul National Trust. L’articolo sul whisky dovrà aspettare.»

Mi mordo le labbra, poi scrollo le spalle. «Okay, dammi tempo fino alle…» guardo l’orologio, «…alle sei. Se mi ci metto subito, per quell’ora dovrei averlo riscritto. Possiamo ancora farcela.»

«No, Cameron», sospira Eddie, esasperato. «Non voglio un rimaneggiamento veloce con qualche taglio qua e là. Voglio che tu lo rifaccia interamente, che tu lo riscriva partendo da un’angolazione diversa. Voglio dire, se proprio devi, mettici pure dentro la tua critica sulla corruzione morale del capitalismo, ma tienila fra le righe, indefinita. Io so — lo sappiamo tutti e due — che puoi farcela, e che sei molto più tagliente quando lavori di bisturi invece che di motosega. Approfitta di questa tua qualità…»

Non sono per niente ammansito, però abbozzo un sorriso e, a denti stretti, faccio un grugnito di conferma.

«D’accordo?»

«Okay», dico, annuendo. «D’accordo.»

«Bene», fa Eddie, appoggiandosi allo schienale. «Come vanno le altre cose? A proposito, mi è piaciuto quel pezzo sul sottomarino. Ben equilibrato. Sull’orlo dell’editoriale, ma non proprio. Ben fatto, ben fatto… Ah, ho sentito dire che potresti avere qualcosa d’interessante su una talpa governativa. È vero?»

Scocco a Eddie il mio miglior sguardo d’acciaio. Sembra rimbalzargli addosso. «Che cosa ti ha detto Frank?»

«Non ho detto che l’ho saputo da Frank», ribatte Eddie, assumendo un’espressione innocente e sincera. Troppo innocente e sincera. «Mi hanno detto che, a quanto pare, hai qualcosa per le mani, qualcosa di cui non parli con nessuno. Non sto ficcando il naso; non voglio saperne niente per il momento. Mi chiedevo soltanto se queste voci fossero vere.»

«Be’, sì, lo sono.» Odio doverlo ammettere.

«Io…» comincia Eddie, ma il telefono si mette a squillare. Risponde con aria seccata.

«Morag, credevo di…» esordisce, poi la sua espressione si tinge di un’amara rassegnazione. «Sì, va bene».

Preme il tasto di attesa e mi rivolge uno sguardo contrito. «Scusa, Cameron. ’Sta maledetta faccenda del Fettesgate. Ci sono pressioni ad alto livello. Devo assolutamente occuparmene. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ci vediamo.»

Esco dall’ufficio sentendomi come se fossi appena andato a parlare con il preside. Mi ritiro nei gabinetti per un naso a naso con la mia vecchia amica Cristallina. Cazzo, per fortuna che esiste la droga.

Quel giorno, Andy, Clare e io percorremmo da un capo all’altro la proprietà di Strathspeld; uscimmo dalla casa, attraversammo il prato, quindi il giardino e il bosco, giù fino alla valle, per salire poi sulla collina coperta di alberi e giungere così all’avvallamento ricoperto di una fitta boscaglia dove si trovava il vecchio camino di aerazione.

Sulla collina c’erano due prese d’aria: la vecchia ferrovia correva proprio lì sotto, ma ormai era chiusa da trent’anni e le entrate del tunnel erano state prima sbarrate con assi e poi riempite di detriti. Il viadotto sopra lo Speld, poco meno di un chilometro più in là, era stato demolito, e solo le basi dei pilastri spuntavano ancora dalle acque vorticose. I binari erano stati divelti: rimaneva soltanto una lunga trincea dal fondo piatto che avanzava sinuosamente tra gli alberi della proprietà.

Le due prese d’aria — scuri e tozzi cilindri di pietra grezza, larghi un paio di metri e alti circa uno, chiusi da una grata di ferro — servivano a far uscire il vapore e il fumo dei treni che passavano nella galleria. Ci si poteva arrampicare su di essi per sedersi poi sulla grata arrugginita — con la paura che cedesse, ma soprattutto con la paura di ammettere che si aveva paura — e guardare giù, nell’oscurità assoluta, cogliendo talvolta l’esalazione fredda e morta del tunnel abbandonato, un odore che saliva e ti circondava, simile a un alito gelido e spietato. Da lì si potevano anche lanciare sassi nel buio: li sentivamo arrivare con un tonfo lontano, a malapena udibile, sul fondo del tunnel, trenta o quaranta metri più sotto. Una volta Andy e io eravamo andati lì con un po’ di giornali vecchi e con una scatola di fiammiferi: avevamo gettato nel buco i giornali arrotolati e incendiati, osservando la lenta discesa nell’oscurità di quelle spirali di fiamma sino a quando non avevano toccato il fondo della galleria.

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