Robin Cook - Vite in pericolo

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Un’agghiacciante incursione nel lato più oscuro dell’assistenza sanitaria, nel fatidico incrocio tra il valore supremo dell’esistenza umana e i cinici interessi del mondo finanziario, capace di subordinare la vita e la morte alla pericolosa seduzione del denaro. Dopo lunghi anni trascorsi nei corridoi di un grande ospedale di Boston, Angela e David Wilson, un’affiatata coppia di medici, decidono di abbandonare la frenesia della metropoli per trasferirsi, con la figlioletta Nikki gracile e malata, in campagna, in una tranquilla cittadina del Vermont. La bellezza e la serenità del luogo, insieme all’affettuosa accoglienza dei suoi abitanti, appaiono un sogno divenuto realtà, destinato a infondere un’ondata di entusiasmo alle loro esistenze: verdi distese di prati, laghi cristallini incastonati in una cornice incantevole di montagne, al posto dell’inquinamento e della criminalità della città. E, nello stesso tempo, si profila per entrambi i coniugi la possibilità di lavorare in un centro gestito in modo dinamico e moderno, dotato di attrezzature all’avanguardia. Ma dopo il primo magnifico, romantico autunno, a Bartlet comincia a profilarsi un paesaggio spoglio e desolato, che rivela, dietro i tristi scheletri degli alberi, oscure e macabre macchinazioni...
A poco a poco, poi a un ritmo sempre più rapido, il paradiso terrestre dei Wilson si sgretola: numerosi pazienti con strani sintomi cominciano a morire misteriosamente, inquietanti trame si nascondono nelle stanze del loro ospedale; un incubo mortale li minaccia... Coinvolti in un sistema medico criminale, nel quale la polizia non intende indagare, Angela e David dovranno combattere con le loro sole forze per non essere travolti dall’orrore e salvaguardare così la felicità della loro famiglia.

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«Credo di potermela cavare da sola», rispose lei.

Dieci minuti dopo, si stringeva convulsamente al marito sulla porta di casa. Lui, già allarmato per l’ora tarda, era rimasto scioccato nel vederla scendere dalla macchina stringendo una valigetta in una mano e un fucile nell’altra, ma non le aveva detto niente, per il momento, l’aveva abbracciata e basta.

Quando finalmente Angela riuscì a staccarsi dal marito, si tolse il cappotto imbrattato di fango e portò valigetta e fucile nel salottino. David la seguì e gettò un’occhiata all’arma, ma ancora non disse nulla al riguardo. Angela si sedette sul divano, si strinse le ginocchia fra le braccia e sollevò lo sguardo su di lui.

«Vorrei riuscire a mantenermi calma», gli disse con voce smorta. «Mi porteresti un bicchiere di vino?»

Lui l’accontentò immediatamente e le domandò se voleva anche mangiare qualcosa, ma lei scosse la testa. Sorseggiò il vino tenendo il bicchiere con tutte e due le mani, come se temesse di lasciarlo cadere, poi cominciò a raccontare dell’aggressione. Ben presto, però, si lasciò sopraffare dall’emozione e scoppiò in lacrime. Per almeno cinque minuti non riuscì a parlare e David l’abbracciò, cercando di calmarla. Era affranto e dava a se stesso la colpa dell’accaduto: non avrebbe dovuto lasciarla lavorare fino a un’ora così tarda.

Alla fine, Angela riuscì a dominarsi e finì il suo racconto. Quando arrivò alla parte che riguardava Robertson, si sentì invadere dalla collera.

«Quell’uomo è incredibile!» esclamò. «Mi rende furibonda. Si è comportato come se la colpa fosse mia.»

«È un idiota», commentò David.

Angela prese la valigetta e gliela porse, mentre si asciugava le lacrime. «Tutta questa fatica e i vetrini non hanno grandi cose da mostrare. Non c’era tumore al cervello, soltanto un po’ d’infiammazione dei tessuti perivascolari, ma non era specifica. Qualche neurone appariva danneggiato, ma potrebbe trattarsi di un mutamento post-mortem.»

«Nessun indizio di una malattia infettiva sistemica?»

Angela scosse la testa. «Ho portato a casa i vetrini, così puoi guardare tu stesso, se vuoi.»

«Vedo che hai un fucile», disse finalmente David.

«Ed è anche carico», lo avvertì Angela, «quindi stai attento e non preoccuparti. Domani ne parlerò con Nikki.»

Un botto e un fragore di vetri rotti li fecero sobbalzare tutti e due. Rusty si mise ad abbaiare dalla camera di Nikki, poi scese di corsa le scale. David prese il fucile.

«La sicura è proprio sopra il grilletto», gli disse Angela e lo seguì nel soggiorno, dove lui accese subito la luce.

Era stata sfondata una finestra e si erano rotti quattro vetri e i listelli che li reggevano. A terra c’era un mattone a cui era attaccato un biglietto identico a quello ricevuto la notte precedente.

«Chiamo la polizia», decise Angela. «Questo è troppo.»

Mentre aspettavano che arrivasse, David fece sedere la moglie e le chiese se quel giorno avesse fatto qualcosa che potesse collegarsi con il caso Hodges.

«No», disse Angela, sulla difensiva. «Be’, ho ricevuto una telefonata dal medico legale.»

«Hai parlato di Hodges con qualcuno?» insistette lui.

«Mentre parlavo con Robertson ho fatto il suo nome.»

«Stanotte?» chiese David, sorpreso.

«Oggi pomeriggio. Sono passata dalla stazione di polizia per parlare con lui, dopo aver comperato il fucile.»

«Ma perché? Dopo quello che è successo ieri davanti alla chiesa, mi sorprende che tu abbia ancora il coraggio di andarlo a trovare.»

«Mi volevo scusare, ma è stato un errore. Robertson non ha intenzione di fare niente per l’omicidio di Hodges.»

«Angela», implorò David, «dobbiamo smetterla di impicciarci di questa faccenda, non ne vale la pena. Un biglietto sulla porta è una cosa, un mattone tirato attraverso la finestra comincia a essere già un’altra cosa.»

Videro avvicinarsi i fari di un’automobile. «Per fortuna non è Robertson», commentò Angela quando ne vide scendere un agente.

Il poliziotto si chiamava Bill Morrison e fu subito evidente che non provava un grande interesse per l’incidente avvenuto a casa Wilson, infatti faceva soltanto le domande necessarie a riempire il verbale. Quando fu sul punto di andarsene, Angela gli chiese se pensava di prendere con sé il mattone.

«Non pensavo di prenderlo», rispose lui.

«Non provate a rilevare le impronte digitali?»

Lo sguardo del poliziotto si spostò da Angela a David, per poi tornare su Angela. La sua espressione denotava sorpresa e confusione. «Impronte?» chiese.

«Che cosa c’è di così sorprendente?» osservò Angela. «A volte è possibile rilevare le impronte anche da oggetti come mattoni e pietre.»

«Be’, non so se sia il caso di mandare una cosa come questa alla polizia di Stato.»

«Nel caso lo facciate, lasci che le dia un sacchetto», disse Angela e andò in cucina. Ritornò con un sacchetto di plastica rovesciato sulla mano raccolse il mattone, poi lo avvolse intorno e porse il tutto a Bill.

«Ecco qua», gli disse. «Adesso siete pronti, nel caso decidiate di provare a risolvere un delitto.»

Bill annuì e si avviò verso la macchina.

«Sto perdendo fiducia nella polizia locale», affermò David.

«Io non ne ho mai avuta», disse Angela.

«Se Robertson è l’unica persona alla quale oggi hai parlato di Hodges, mi domando chi ha tirato quel mattone.»

«Pensi che possa essere stata la polizia?»

«Non lo so. Non posso credere che si spingano così lontano, ma penso che sappiano più di quanto non vogliano dire. L’agente Bill non era certo eccitato per l’incidente.»

«Comincio a pensare che questa città non sia il posto idilliaco che credevamo.»

David andò nella rimessa e tornò con un pezzo di compensato per coprire il buco nella finestra. Angela lo guardò mentre cercava di aprire la scaletta a libro e gli chiese com’era andata la sua giornata e in particolare come stava Jonathan Eakins.

«Non lo so, non sono più il suo medico», rispose David.

«Come mai?»

«Kelley gliene ha assegnato un altro.»

«Può farlo?»

«Lo ha fatto.» In cima alla scaletta, David appoggiò il compensato al telaio della finestra e cercò di tirare fuori un chiodo dalla tasca. «All’inizio ero furibondo, ma adesso mi sono rassegnato. Il lato positivo è che non mi devo più sentire responsabile per lui.»

«Ma ti sentirai ancora responsabile, ti conosco.»

David si fece passare il martello, ma al primo colpo che diede andò in frantumi un altro vetro. Rusty uscì dalla camera di Nikki e si mise ad abbaiare in cima alle scale.

David imprecò.

«Forse dovremmo pensare ad andarcene da Bartlet», suggerì Angela.

«Non possiamo fare fagotto e andarcene. Abbiamo il mutuo e i contratti da rispettare. Non siamo più liberi come prima, a Boston.»

«Ma niente si è svolto come ci aspettavamo. Tutti e due abbiamo problemi sul lavoro. Io sono stata aggredita e questa faccenda di Hodges mi fa diventare pazza.»

«Devi lasciar perdere Hodges. Ti prego.»

«Non posso!» Angela era prossima alle lacrime. «Ho persino cominciato ad avere incubi in cui vedo la cucina piena di sangue. Tutte le volte che ci entro, ci ripenso e non riesco a scacciarmi di mente che l’assassino se ne va in giro libero e potrebbe ritornare qui quando gli pare. Che vita è, doversi tenere un fucile in casa?»

«Non dovremmo avere un fucile.»

«Io non ci sto qui in casa di notte, quando tu vai in ospedale. Non senza un fucile!»

«Farai meglio a spiegare a Nikki che non lo deve nemmeno sfiorare!»

«Gliene parlerò domani.»

«A proposito», disse David, cambiando tono. «Ho visto per caso Caroline al pronto soccorso, è ricoverata con la febbre alta e problemi respiratori.»

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