La fortuna, per flagellarmi meglio, spirò un fiato favorevole nelle vele; partii, giunsi e arrivai a Cadice e a Siviglia, dove impresi traffici smisurati: nei traffici rovina agli altri, io crescevo; i pazzi consigli miei riuscivano meglio dei savi provvedimenti altrui; apparvi oracolo, e fui soltanto avventuroso; la turba m’invidiava, mi applaudiva e adulava.
Due anni passati, tornò a Firenze. E come forte mi tremò il cuore quando prima scopersi da lontano la cupola della basilica nostra! se avessi avuto le ali non mi sarebbe sembrato di affrettarmi a mia voglia: pur giungo e difilato mi avvio alla casa paterna; la mano mi manca per bussare alla porta, altri bussano per me, si apre, chi mi apriva non guardo, corro, corro in traccia di mio padre; la casa ì vuota!.... Rifaccio i passi, e vedo il vecchio genitore genuflesso davanti un Crocifisso, e ascolto tra i singhiozzi pregare riposo all’anima mia.... “Sono io morto, perché mi diciate il requiem ?” – esclamò maravigliato; e il padre piange e più che mai si raccomanda: mi accosto, ei trema e non ardisce guardarmi. “Anima benedetta, lui diceva con stupenda prestezza, anima benedetta, va in pace, io spenderò in suffragarti l’ultima mia masserizia… Va in pace”. Tornate le persuasioni invano, mi vinse lo sdegno, mi dolsi del modo col quale mi accoglieva, minacciai andarmene tanto lontano che mai più avrebbe riveduto la mia faccia, di poco amore lo rampognai. Lui sorse allora tra stupido e spaventato, e: “Tu vivi?” – mi domanda con parole interrotte… Mi tocca… mi bacia… e quando il suo dubbio fu tutto spento, crudeli! crudeli! esclama e mi cade semivivo tra le braccia. Qual io rimanessi non saprei raccontarvi con discorso convenevole.
Lui rivenne tosto, e io ansiosamente gli domandai: “Chi è questo, padre? e la donna mia?” – “La donna tua? Vieni a vedere la tua donna”, – e con impeto giovanile mi trasse fuori di casa.
Giungiamo alle porte di Santa Maria del Fiore; lì incontrammo fanti e donzelle, i quali tenevano per le redini in copia palafreni; entriamo in chiesa, la più parte sepolta in profondissima oscurità; andiamo avanti, e pervenuti al punto della nave dove sospeso alla parete si ammira il simulacro di Dante, coronata con la ghirlanda nuziale, con lo sposo al fianco, blandita da gioconda comitiva, ritorna da legare la sua fede eternalmente ad un uomo dal piè degli altari una donna, e questa donna è la mia!… Empii di un grido orribile le volte del santuario e, stretto il pugnale, mi precipitai a trucidare la spergiura; mutati appena due passi, il ghiaccio di un ferro mi penetra nelle viscere, e precipito avvolgendomi nel mio sangue sul pavimento. Non piacque all’inferno ch’io mi morissi: udite stupenda nequizia umana! Aperti gli occhi, mi trovo giacente sopra miserabile pagliericcio, dentro una stanza vuota, le mani e i piedi stretti da funi… non mi rinveniva, cercava con la mente nì giungeva a indovinare in qual luogo mi avessero condotto e perché così legato. All’improvviso mi spaventa uno schiamazzo confuso di minacce, di percosse, di pianto, di preghiere e di risa; e sopra tutte queste voci tempestare un urlo che diceva: “Chiudete le porte, san Pietro!” – “san Paolo, di grazia, a che tenete quello spadone ai fianchi?” – “Ora dov’ì andato l’arcangelo Michele?” – “I demoni danno l’assalto al paradiso.... e’ l’hanno preso”, – “l’hanno preso,” – “scomunicati!” – “eretici!” – “così bussate il Padre Eterno? poveraccio!” Mi accorsi che mi avevano condotto all’ospedale dei pazzi.
Un giorno corsi dall’ospedale; poichì ebbi corsa lunga ora non pensando a nient’altro che a fuggire, incominciai a divisare dove procurarmi un asilo, come sottrarmi alle persecuzioni dei miei feroci nemici; pericoloso mi parve, ed era, ridurmi alla casa paterna, ma anelando conoscere come il caso avvenisse, colà appunto mi condussi; – oscurità e silenzio; – chiamo, busso, torno a chiamare, e sempre invano; tolto di speranza da questa parte, il cuore mi augurando sinistramente, ma pur non sapendo qual male temere, mi venne in pensiero il castaldo che abitava certe casette di nostro alla estremità della via; – lo trovai con la famiglia prostrato a terra, perché le campane avevano suonato l’ora prima di notte, a recitare il De profundis per le anime dei defunti: siccome inosservato io penetravo là dentro, udii pregare pace all’anima mia e a quella di mio padre. “Sarebbe lui morto?” esclamai con immenso dolore. Immaginate voi lo spavento prima, poi la meraviglia e la esultanza di quei buoni, – i soli che mi siano occorsi nella vita. Il mio povero padre era morto pur troppo! Alle persecuzioni e all’odio del malvagio, che pei rimorsi riarde più feroce, soccombeva i miei nemici con le proprie mani avendomi distrutto, con le proprie mie mani io mi ero deliberato distruggerli; dente per dente, pelle per pelle, come insegna Moisè; presi nella destra il pugnale, nella manca un pugno della terra che l’ossa ricopriva di mio padre e giurai vendicarmi… di vendetta italiana… Aspettate e vedrete come saprò vendicarla.
“E per colpa di un solo volete sommersa la barca? A parere mio, io vi terrei meno triste, se uccideste i vostri nemici a tradimento. Per odio privato voi condannate a morte l’antica repubblica di Firenze”.
“Che significa repubblica? E’ una parola di largo contorno e che dentro di sì comprende libertà da comizio e tirannide d’inquisitori di stato. Il governo dove impunemente si commettono misfatti quali soffersi io non può dirsi libero, e tale invero non fu mai il nostro; e poi io sacrifico volentieri la libertà passaggiera alla forza perenne, madre vera di durevole libertà. Messere, voi pensate avere gettato un germe nel mio cuore, ed lui ha già partorito da parecchio tempo il suo frutto; non pertanto grazie vi siano della proposta. Aiutatemi: quello che non fecero i cinque e i dieci anni, lo faranno i venti; le piaghe del vostro cuore saranno sanate; vi confidi il futuro. Voi mio maestro e mio duca dovete vivere, amare e governare”.
“Camminate la vostra via. Non vi trattenete a guardare i miei fati, io vi sovverrò come e dovunque possa, ma non per vivere; se avessi intenzione di durare nella vita, il Bandino non conosce signore degno della sua servitù, tranne uno solo, e questi è il Bandino”.
Capitolo Nono
Michelangelo Buonarroti
Dante da Castiglione era giunto ai bastioni di San Miniato con mirabile arte condotti per industria del divino Michelangelo. Quantunque il Varchi [13]ci narri nel decimo libro delle sue Storie essere stati biasimati da alcuni perché fatti con troppi fianchi, le cannoniere troppo spesse, per le quali venivano a indebolirsi, e troppo ancora sottili da non potere reggere l’urto delle grosse artiglierie, nondimeno furono tenuti non solo per questi tempi stupendi, ma in epoca più recente meritarono che Vauban, celebrato ingegnere francese, ne levasse la pianta e ne prendesse le misure. Questi bastioni cominciavano fuori della porta San Francesco, e salendo su per il monte circuivano l’orto, il convento e la chiesa di San Miniato; così descritto un larghissimo ovato si ricongiungevano alla porta San Francesco. Nell’orto di San Miniato era alzato un fortissimo cavaliere che guardava il Gallo e Giramontino. Ancora poco sotto del convento di San Francesco fu fatto un altro bastione, il quale con le sue cortine scendeva giù da oriente fino al borgo di Porta San Nicolò e terminava con alcune bombardiere poste sopra Arno: altri bastioni e puntoni e cavalieri costruirono che non importa descrivere, armati di grossi panconi di quercia, ripieni dentro di terra e di stipa, di fuori fasciati con mattoni crudi composti di terra pesta mescolata con capecchio trito.
Non tutte quelle fortificazioni erano condotte a termine nel tempo di cui favelliamo, perocché mancassero i fossi, le vie coperte e simili altri accessorii; e poiché il nemico stava a fronte, e di giorno in giorno si temeva l’assalto, così non smettevano mai il lavorio di giorno o di notte. Dante salendo pel poggio si fermò un momento a contemplare un numero infinito di fiaccole scorrere di su, di giù, da tutti i lati, e al chiarore di questi fuochi ammirò il solenne spettacolo di un popolo irrequieto per la propria difesa, pago, per mercede, del contento che l’opera stessa gli somministrava, senza secondi pensieri, senza idea comunque lontanissima di accordo, nè anche per ombra dubbioso di potere perdere la prova, fidente in Dio, fidente nel suo braccio, affatto sublime; popolo vero insomma, non già sozza, cupida, ignorante, iattante plebe e codarda; onde sospirando ebbe a dire: “Te felice, o popolo, se non ti fossi mai lasciato soverchiare dai tuoi eguali! Le mani che trattano la zappa meglio delle altre saprebbero reggere lo stato.”
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