Anne Rice - La regina dei dannati

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I vampiri non sono solo gli esseri tenebrosi e agghiaccianti che ci ha sempre mostrato la letteratira nord-europea. Per Anne Rice, autrice delle “Cronache dei vampiri”, possono avere il volto seducente e sensuale del vampiro Lestat e vivere in un mondo voluttuosamente separato, incarnando una particolare mitologia: quella dei seduttori spregiudicati, fatali come dive, scatenati e decadenti al tempo stesso. Quasti vampiri nostri contemporanei ci faranno viaggiare dalla frenetica San Francisco ai remoti anfratti polari e alla tenebrosa Londra al seguito di Lestat, la ‘rock star’ che ha reso pubbliche le proprie conoscenze occulte utilizzandole come soggetti per canzoni che tanto affascinano la gente. Con Lestat, per di più, viaggeremo nel tempo: le sue canzoni raggiungono, per risvegliarli, la regina Akasha e il re Enkil, che da sessanta secoli vivono fuori della storia, già sovrani della valle del sacro Nilo e progenitori di tutti i vampiri. Scopriremo così, tra colpi di scena e improvvise quanto impreviste svolte narrative, la verità di sogni misteriosi e di mitici retaggi; saremo introdotti nei sotteranei degli investigatori dell’occulto e con loro scenderemo nelle viscere della terra ove vengono custoditi i segreti più inviolabili; come viaggiatori di una macchina del tempo, trasvoleremo la Parigi ottocentesca, con il suo Teatro dei Vampiri veri e finti, per incontrare le diverse incarnazioni dei vari personaggi. Arriveremo così allo scontro finale, al più incredibile contrasto fra Bene e Male, ma — beninteso — un ‘bene’ e un ‘male’ di forza vampiresca… Stia tranquillo il lettore: Lestat — protagonista, artefice e narratore di queste mirabolanti avventure — non sarà sopraffatto, anzi il suo operato riscatterà l’esistenza dei bevitori di sangue. Certo, dovrà giurare di comportarsi in futuro correttamente, secondo l’estetica degli uomini-pipistrello, e di lasciar perdere le seduzioni spettacolari e il piacere del successo. Lestat promette, ma…

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Baby Jenks aveva cercato di leggere il libro del vampiro Lestat, la storia dei Morti che risaliva ai tempi antichi e tutto il resto: ma c’erano troppi paroloni e zac, s’era addormentata.

Killer e Davis dicevano che poteva leggere molto velocemente, se si impegnava. Si portavano dietro le copie di un libro, quello con il titolo che non ricordava mai esattamente, qualcosa come «conversazioni con il vampiro» o «colloqui con il vampiro» o «incontro con il vampiro». Ogni tanto Davis lo leggeva ad alta voce, ma Baby Jenks non riusciva a stare attenta e si addormentava. Il Morto Louis, o come si chiamava, era stato creato Morto a New Orleans, e il libro era pieno di discorsi sulle foglie di banano, le ringhiere di ferro battuto e il lichene spagnolo.

«Baby Jenks, loro sanno tutto, i vecchi europei», diceva Davis. «Loro sanno com’è incominciato, sanno che possiamo tirare avanti per sempre, possiamo vivere fino a mille anni e diventare di marmo bianco.»

«Oh, è magnifico, Davis», diceva lei. «È già un guaio non poter entrare in Seven Eleven sotto quelle luci senza che la gente ti guardi. Chi vuol sembrare di marmo bianco?»

«Baby Jenks, tu non hai più bisogno di niente dal Seven Eleven», diceva Davis con molta calma. Però aveva capito.

Meglio lasciar perdere i libri. Baby Jenks amava la musica del vampiro Lestat, e quelle canzoni le davano molto, soprattutto quella che parlava di Coloro-che-devono-essere-conservati, il re e la regina egiziani… anche se per dire la verità non sapeva cosa diavolo significava, prima che Killer glielo spiegasse.

«Sono i progenitori di tutti i vampiri, Baby Jenks, la Madre e il Padre. Vedi, c’è una discendenza ininterrotta da quel re e da quella regina dell’antico Egitto, chiamati Coloro-che-devono-essere-conservati. E bisogna conservarli perché, se li distruggi, distruggi anche tutti noi.»

A lei sembravano un mucchio di fesserie.

«Lestat ha visto la Madre e il Padre», aveva detto Davis. «Li ha trovati nascosti su un’isola greca, quindi sa che è vero. È quel che dice a tutti con le sue canzoni… ed è la verità.»

«E la Madre e il Padre non si muovono, non parlano e non bevono sangue, Baby Jenks», aveva detto Killer. Aveva un’aria pensierosa, quasi triste. «Se ne stanno lì a occhi sbarrati, come fanno da migliaia di anni. Nessuno sa quello che sanno quei due.»

«Probabilmente niente», aveva detto Baby Jenks, disgustata. «E ve lo dico io, bel modo d’essere immortali! Perché dici che i Morti delle grandi città possono ucciderci? Come è possibile?»

«Il fuoco e il sole ci riescono sempre», aveva risposto Killer, un po’ spazientito. «Te l’ho detto. Adesso ascoltami, ti prego. Puoi sempre combattere i Morti delle grandi città. Il fatto è che i Morti delle grandi città hanno paura di te come tu ne hai di loro. Basta che fili via quando vedi un Morto che non conosci. È una regola seguita da tutti i Morti.»

Dopo che avevano lasciato la casa della congrega, Baby Jenks aveva avuto un’altra sorpresa da Killer; le aveva detto dei bar dei vampiri. Erano grandi locali di lusso a New York e San Francisco e New Orleans dove i morti s’incontravano nelle sale sul retro mentre gli stupidi esseri umani bevevano o ballavano. Là dentro nessun altro Morto poteva ucciderti, cittadino o europeo o vagabondo come lei.

«Corri a rifugiarti in uno di quei posti», le aveva detto Killer, «se i Morti delle grandi città ti scoprissero.»

«Non sono abbastanza grande per entrare in un bar», aveva detto Baby Jenks.

Non mancava altro. Killer e Davis avevano riso da star male. Quasi cadevano dalle motociclette.

«Trova un bar di vampiri, Baby Jenks», aveva detto Killer. «Lanciagli il Malocchio e poi digli ‘Fatemi entrare’.»

Sicuro, lei aveva usato il Malocchio con la gente e aveva funzionato. E per la verità non avevano mai visto i bar dei vampiri. Ne avevano solo sentito parlare. Non sapevano dov’erano. Baby Jenks aveva tante cose da chiedere quando finalmente avevano lasciato St. Louis.

Ma adesso, mentre puntava verso nord, verso quella città, l’unica cosa al mondo che le interessasse era arrivare alla stramaledetta casa della congrega. Morti della grande città, ecco che arrivo. Sarebbe diventata pazza se avesse dovuto continuare da sola.

La musica in cuffia cessò. Il nastro era finito. Non sopportava il silenzio nel rombo del vento. Le ritornò in mente il sogno: rivide le gemelle, i soldati che si avvicinavano. Gesù. Se non l’avesse scacciato, quello stramaledetto sogno si sarebbe ripetuto come una registrazione.

Tenne la moto con una mano e si frugò nel giubbotto per aprire il piccolo mangiacassette. Girò il nastro: «Avanti, canta!» disse. La sua voce era esile e stridula nel vento.

Cosa possiamo sapere
Di Coloro-che-devono-essere-conservati?
C’è qualche spiegazione che ci può salvare?

Sissignori, era la canzone che le piaceva. L’aveva ascoltata quando s’era addormentata in attesa che sua madre tornasse dal lavoro a Gun Barrel City. Non erano le parole che la colpivano, era il modo in cui la cantava. Gemeva nel microfono come Bruce Springsteen e ti spezzava il cuore.

In un certo senso era come un inno, aveva quel genere di suono; eppure Lestat era là, cantava per lei, e c’era un ritmo ossessivo che le arrivava alle ossa.

«Okay, cribbio, okay, sei l’unico stramaledetto Morto che mi resta, Lestat. Continua a cantare.»

Mancavano cinque minuti per arrivare a St. Louis, e lei pensava di nuovo a sua madre. Com’era stato strano e doloroso…

Baby Jenks non aveva neppure detto a Killer e a Davis perché andava a casa, anche se loro sapevano e capivano.

Baby Jenks doveva farlo: doveva arrivare dai genitori prima che la Banda delle Zanne si dirigesse all’ovest. Non era pentita neppure adesso. Solo per quello strano attimo, quando sua madre stava morendo sul pavimento.

Baby Jenks aveva sempre odiato sua madre. Pensava che fosse una gran scema; ogni giorno della sua vita faceva le croci con le conchigliette rosa e i pezzetti di vetro e le portava al mercato delle pulci di Gun Barrel City e le vendeva per dieci dollari. Erano brutte, vere schifezze fatte a mano, quelle cose con un minuscolo Gesù contorto in centro, fatto di perline rosse e azzurre.

Ma non era solo questo: era tutto ciò che sua madre aveva fatto, a disgustare Baby Jenks. Andava in chiesa, e questo era già abbastanza orrendo, ma poi parlava con la gente con tanta dolcezza e sopportava le sbronze del marito e inoltre sapeva dire sempre qualcosa di carino su tutti.

Baby Jenks non aveva mai creduto una parola. Se ne stava sdraiata sulla cuccetta della roulotte e si chiedeva: Cosa la fa funzionare veramente? Quando scoppierà come un candelotto di dinamite? Oppure è troppo stupida? Sua madre aveva smesso di guardarla negli occhi diversi anni prima. Quando Baby Jenks aveva dodici anni, era entrata e aveva detto: «Sai che l’ho fatto, vero? Spero che non penserai che sono vergine!» E sua madre aveva preso quell’atteggiamento svanito e aveva girato gli occhi vuoti e stupidi mettendosi a lavorare e canticchiando come sempre quando faceva quelle croci di conchiglie.

Una volta un tale d’una grande città aveva detto a sua madre che era una vera artista popolare. «Ti prendono in giro», aveva detto Baby Jenks. «Non lo sapevi? Non hanno comprato neanche una di quelle schifezze, vero? Sai cosa mi sembrano? Te lo dico io: mi sembrano orecchini da grande magazzino!» Sua madre non discuteva. Porgeva l’altra guancia. «Vuoi la cena, cara?»

Era un caso aperto e chiuso, pensava Baby Jenks. Perciò aveva lasciato Dallas molto presto ed era arrivata a Cedar Creek Lake in meno di un’ora. C’era il cartello che indicava la sua dolce, piccola città natale.

BENVENUTI A GUN BARREL CITY
CON VOI SPARIAMO DIRITTO

Quando era arrivata, aveva nascosto la Harley dietro la roulotte. In casa non c’era nessuno. S’era sdraiata per fare un sonnellino, mentre Lestat cantava nella cuffia, il ferro a vapore a portata di mano: quando sua madre fosse entrata, slam bam, tante grazie signora, e l’avrebbe fatta fuori con quello.

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