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George Martin: La luce morente

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George Martin La luce morente

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La storia di un pianeta che vive la sua ultima stagione di luce prima del buio intergalattico «Un vagabondo, un viaggiatore senza meta, una scoria della creazione: il pianeta Worlorn era tutte queste cose. Per innumerevoli secoli aveva continuato a cadere, da solo, senza scopo, precipitando tra i freddi e solitari spazi che si aprono fra le stelle. Ma lui non apparteneva a nessuna di quelle stelle. In un certo senso non faceva nemmeno parte della galassia, anche se rotolava attraverso il piano della galassia come un chiodo che attraversa la tonda superficie di un tavolo. Non faceva parte di niente...» Poi Worlorn passa vicino alla Ruota di Fuoco, la supercostellazione che gli darà qualche anno di luce prima che esso piombi di nuovo nella notte senza fine cui sono destinati i mondi senza sole. E nel momento in cui il pianeta solitario si avvicina, forse per l’ultima volta, al fuoco della vita, gli uomini decidono di trasformarlo per i loro fini riposti. La luce morente è una storia di superscienza, ma anche di esseri umani posti di fronte a un ennesimo simbolo dell’esistenza precaria che conduciamo, sul Margine dell’universo. É il primo romanzo di George R.R.Martin, un grande affresco spaziale del lontano futuro, dove tutto è azione, poesia, meraviglia.

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Fece un lungo tratto di strada. C’erano alte torri di guardia, per lo più come quella dove stavano loro, poste ad intervalli regolari. Ne superò sei e stimò che la distanza fra una torre e l’altra doveva grosso modo essere di un terzo di chilometro. Ogni torre aveva una cariatide e nessuna cariatide era uguale all’altra, notò. Poi, improvvisamente, le riconobbe. Quelle figure non erano tradizionali, non erano affatto prodotti di Vecchia Terra; erano i demoni del mito Kavalar, grottesche versioni mitizzate dei Dattiloidi, degli Hruun e dei succhiatori d’anima Githyanki. In un certo senso erano tutte reali. Da qualche parte tra le stelle, tutte quelle razze erano ancora vive.

Le stelle. Dirk si fermò ed alzò gli occhi. Occhiodaverno aveva cominciato a spuntare sull’orizzonte; quasi tutte le stelle erano già scomparse. Ne vide solo una; debolissima, una capocchia di spillo rossa striata da riccioli di nubi grigie. Scomparve mentre la guardava. La stella di Alto Kavalaan, pensò lui. Garse Janacek gliela aveva mostrata, un punto di riferimento per la sua fuga.

Comunque c’erano poche stelle lassù. Questi non erano posti in cui potessero vivere gli uomini, questi mondi come Worlorn, Alto Kavalaan e Cupalba, questi mondi esterni. Il Grande Mare Nero era troppo vicino ed il Velo Tentatore nascondeva la maggior parte della galassia, sicché i cieli erano cupi e vuoti. Un cielo doveva avere delle stelle.

Del resto un uomo doveva avere un suo codice. Un amico, un teyn , una giusta causa… qualcosa che andava al di là di se stesso.

Dirk camminò fino al bordo esterno delle mura e guardò giù. Era uno strapiombo lungo, lunghissimo. La prima volta che aveva superato le mura con un aeroscooter, aveva perso l’equilibrio, proprio perché aveva guardato giù. Le mura scendevano per un bel tratto e più in basso c’era il dirupo che non finiva più ed in fondo c’era un fiume che scorreva tra prati verdi e nebbie mattutine.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre il vento gli scompigliava i capelli e rabbrividì un po’. Era immobile e guardava. Poi tirò fuori la sua gemma mormorante. La soffregò tra pollice e indice, come se fosse un portafortuna. Jenny , pensò. Dove era andata? Nemmeno il gioiello era riuscito a riportargliela indietro.

Risuonarono dei passi vicini a lui, poi una voce. «Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn » .

Dirk si voltò, con la gemma mormorante ancora in mano. C’era un vecchio vicino a lui. Alto come Jaan e vecchio come il povero Chell morto. Era massiccio e leonino, con una testa di capelli bianchi come la neve, spettinati, che si univano ad una barba ugualmente tempestosa a formare una magnifica criniera. Eppure il suo viso era stanco e sbiadito come se si fosse consumato in un periodo di secoli. Solo gli occhi risaltavano; erano intensi, occhi follemente azzurri, occhi come quelli che aveva avuto Garse Janacek, che bruciavano di febbre gelida sotto le sopracciglia cespugliose.

«Non ho granlega», disse Dirk, «e non ho nemmeno teyn » .

«Mi dispiace», disse l’uomo. «Vieni da un altro mondo, eh?».

Dirk fece un inchino.

Il vecchio ridacchiò. «Be’, allora vaghi per la città sbagliata, spettro».

«Spettro?».

«Uno spettro del festival», disse il vecchio. «Cos’altro potresti essere? Questo è Worlorn ed i vivi se ne sono andati tutti». Indossava un mantello nero di lana con enormi tasche, gli altri abiti erano di un pallido blu. Un pesante disco di acciaio inossidabile era appeso sotto la sua barba, sospeso ad una cinghia di cuoio. Quando tolse le mani dalle tasche del mantello, Dirk vide che gli mancava un dito. Non portava braccialetti.

«Tu non hai teyn », disse Dirk.

Il vecchio borbottò: «Naturalmente avevo un teyn , spettro. Io ero un poeta, non un prete. Che razza di domanda è mai questa? Attento. Potrei accusare insulto».

«Non porti il ferro-e-fuoco», sottolineò Dirk.

«Abbastanza vero, però che importa? Gli spettri non hanno bisogno di gioielli. Il mio teyn è morto da trent’anni e vaga per qualche granlega laggiù in Rossacciaio, immagino, ed io sono qui che vago per Worlorn. Be’, se devo dire la verità, solo per Larteyn. Vagare per un intero pianeta deve essere proprio stancante».

«Ah», disse Dirk sorridendo. «Allora anche tu sei uno spettro?».

«Be’, sì», rispose il vecchio. «Eccomi qui, a parlare con te perché mi mancano delle robuste catene da strascicare. Tu chi pensi che io sia?».

«Io penso», disse Dirk, «penso che tu potresti soltanto essere Kirak Rossacciaio Cavis».

«Kirak Rossacciaio Cavis», ripeté il vecchio con una strana burbera cantilena. «Lo conosco. Uno spettro come pochi altri. Il suo particolare destino è quello di occupare il cadavere della poesia Kavalar. Va in giro di notte ad ululare recitando versi tratti dai lamenti di Jamis-Leone Taal ed alcuni dei migliori sonetti di Erik Alto-Ferrogiada Devlin. Durante la luna piena canta gli inni di battaglia di Braith e qualche volta i canti funebri degli antichi cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Uno spettro, infatti ed anche molto patetico. Quando vuole tormentare in modo particolare una delle sue vittime, lui le recita qualcuno dei suoi versi, ti assicuro che quando hai sentito una volta Kirak Rossacciaio, le catene strascicate sono molto meglio».

«Sì?», disse Dirk. «Non capisco perché essere un poeta debba essere, di per se stessa, una cosa tanto spettrale».

«Kirak Rossacciaio scrive poesie in Antico Kavalar», disse l’uomo con un cipiglio. «E questo è già abbastanza. È una lingua che muore. Quindi chi mai leggerà ciò che scrive? Nella sua granlega, gli uomini nascono e imparano a parlare soltanto il classico linguaggio stellare. Può darsi che traducano la sua poesia, ma è uno sforzo che non ne vale la pena, sai. Nella traduzione non si possono mantenere le rime e la metrica è molle come un falsuomo dalla schiena rotta. Non c’è niente di buono nelle sue traduzioni, nemmeno un po’. Le cadenze tintinnanti di Galeno Pietraluce, i dolci inni di Laaris-Cieco alto-Kenn, tutti quei piccoli Scianagate monotoni che esaltano il ferro-e-fuoco, perfino le canzoni delle eyn-kethi , queste son cose che non possono quasi più dirsi poesia. È tutto morto, il minimo pezzettino è morto e sopravvivono soltanto in Kirak Rossacciaio. Sì, quest’uomo è uno spettro. Altrimenti perché sarebbe venuto su Worlorn? Questo è un mondo per spettri». Il vecchio si tirò la barba ed osservò Dirk. «Tu sei lo spettro di un qualche turista, oserei immaginare. Indubbiamente ti sei perduto mentre cercavi una toeletta e da quel momento hai cominciato a vagare».

«No», disse Dirk, «no. Stavo cercando qualcos’altro». Sorrise e sollevò la gemma mormorante.

Il vecchio la osservò, strizzando gli occhi azzurri, mentre il vento fresco gli faceva svolazzare il mantello. «Qualsiasi cosa sia, probabilmente è morta», disse. Lontano da loro, giù, presso il fiume che scintillava attraverso il Comune, un suono veleggiò fino a loro: il gemito debole e distante di una banscea. Dirk voltò il capo di scatto e guardò per vedere da dove era arrivato il rumore. Non c’era niente, niente… solo loro due, in piedi sulle mura, il vento che li spingeva ed Occhiodaverno alto nel cielo crepuscolare. Non c’erano banscee. Il tempo delle banscee era passato quaggiù. Erano tutte estinte.

«Morta?», disse Dirk.

«Worlorn è piena di cose morte», disse il vecchio, «e di gente che cerca cose morte e spettri». Mormorò qualcosa in Antico Kavalar, qualcosa che Dirk non riuscì a comprendere pienamente e cominciò ad allontanarsi lentamente.

«Dirk lo osservò mentre si allontanava. Fissò il distante orizzonte, oscurato da un banco di nubi grigie e azzurre. Da qualche parte, in quella direzione, c’era lo spazioporto e — lui ne era certo — Bretan Braith. «Ah, Jenny», disse, parlando alla gemma mormorante. La gettò lontano da lui, come un ragazzo che lanci una pietra e la gemma andò lontano, lontanissimo, prima di cominciare a cadere. Pensò per un momento a Gwen, a Jaan e per parecchi istanti a Garse.

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