Eragon era in piedi. Durza caricò, la spada levata, dimenticando lo scudo nella sua furia.
I giorni trascorsi ad allenarsi sotto il sole cocente, sempre all’erta, in cerca delle lucertole che catturavano per cibarsi. Come il suo potere cresceva lentamente, dandogli orgoglio e fiducia. Le settimane trascorse a curare il maestro, ammalato dopo un incantesimo fallito. La gioia di quando Haeg si era ripreso...
Non c’era tempo per reagire... non c’era tempo...
I banditi che avevano attaccato durante la notte, uccidendo Haeg. La rabbia che Carsaib aveva provato e gli spiriti che aveva evocato per vendicarsi. Ma gli spiriti erano più forti di quanto avesse previsto. Lo tradirono e si impossessarono del suo corpo e della sua mente. Aveva gridato.
Era... IO SONO DURZA!
La spada si abbattè con violenza sulla schiena di Eragon, lacerando metallo e carne. Il ragazzo urlò di dolore e cadde di nuovo in ginocchio. La sofferenza lo faceva stare piegato in due e sopprimeva ogni pensiero. Vacillò, appena cosciente del sangue che gli scorreva, copioso sulle reni. Durza disse qualcosa che non riuscì a capire.
Col cuore gonfio di angoscia, Eragon alzò gli occhi al cielo, il volto rigato di lacrime. Era finita, l Varden e i nani distrutti. Lui era stato sconfitto. Saphira si sarebbe immolata per salvarlo - lo aveva già fatto - e Arya sarebbe stata catturata di nuovo o uccisa. Perché doveva finire così? Che giustizia era? Tutto per niente.
Mentre guardava Isidar Mithrim scintillare sopra il suo corpo martoriato, un lampo di luce esplose nei suoi occhi, accecandolo. Un istante dopo, la sala risuonò di un rumore assordante. Poi i suoi occhi si schiarirono, e rimase a bocca aperta per lo stupore.
Lo zaffiro stellato era infranto. Un enorme ventaglio di frammenti acuminati pioveva verso il lontano pavimento, i muri trafitti da mille schegge. Al centro della sala, intenta a calare in picchiata, c’era Saphira. Dalle sue fauci spalancate eruttò una vampa di fuoco gialla e azzurra. Sul suo dorso cavalcava Arya: i capelli al vento, le mani alzate, i palmi scintillanti di magica luce verde. Il tempo parve rallentare mentre Eragon vide Durza alzare la testa verso il soffitto. Prima la sorpresa, poi la rabbia deformò i lineamenti dello Spettro. Con un ringhio sprezzante, alzò la mano e la puntò contro Saphira, le labbra pronte a mormorare una parola.
Un’insospettabile riserva di energia divampò dentro Eragon, richiamata dai più profondi recessi del suo essere. Le sue dita si strinsero intorno all’elsa di Zar’roc. Sfondò la barriera della mente e prese controllo della magia. Tutto il suo dolore e.la sua rabbia si concentrarono in un’unica parola:
«Brisingr!»
Zar’roc fiammeggiò di luce rossa, la lama percorsa da una vampa senza calore…
Si scagliò in avanti…
E colpì Durza dritto al cuore.
Durza, esterrefatto, abbassò lo sguardo sulla lama che gli sporgeva dal petto. La sua bocca era aperta, ma invece di parole ne sgorgò un ululato terrificante. La spada cadde dalle dita prive di forza. Afferrò Zar’roc come volesse strapparsela dalla carne, ma la lama era conficcata in profondità.
Poi la pelle di Durza divenne trasparente: sotto di essa non c’erano carne né ossa, ma un turbinio notturno. Gridò ancora più forte mentre le tenebre pulsavano, spaccandogli la pelle. Con un ultimo grido. Durza si lacerò dalla testa ai piedi, liberando le tenebre che si divisero in tre rivoli, pronti a fuggire attraverso le mura di Tronjheim, fuori dal Farthen Dùr. Lo Spettro era morto.
All’improvviso svuotato di ogni energia, Eragon cadde riverso, con le braccia spalancate. Sopra di lui, Saphira e Arya avevano quasi raggiunto terra, sembrava che stessero per schiantarsi al suolo insieme ai resti di Isidar Mithrim. Mentre la sua vista si annebbiava, Saphira. Arya e la miriade di frammenti, tutto parve fermarsi e restare immobile, a mezz’aria.
Frammenti di ricordi dello Spettro continuavano a vorticare nella mente di Eragon, un delirio di eventi oscuri ed emozioni travolgenti che gli impediva di pensare. In balìa del turbine, non sapeva chi era né dove si trovava, Era troppo debole per liberarsi dalla presenza estranea che gli offuscava la mente. Immagini violente, crudeli, del passato dello Spettro gli esplosero dietro gli occhi finché il suo spirito non gridò di dolore a quelle visioni sanguinose.
Una pila di cadaveri davanti a lui... innocenti uccisi per ordine dello Spettro. Vide altri corpi interi villaggi strappati alla vita per mano o per bocca del demone. Non c’era scampo alla carneficina che lo circondava. Vacillò come la fiamma di una candela, incapace di resistere alla marea del Male. Pregò perché qualcuno lo liberasse da quell’incubo, ma non c’era nessuno a guidarlo. Se solo avesse ricordato che cos’era: un ragazzo o un uomo, un cattivo o un eroe, uno Spettro o un Cavaliere. Tutto era confuso in una frenesia priva di significato. Era perduto per sempre in quel viluppo tumultuoso.
All’improvviso, una massa di ricordi, suoi ricordi, si aprì un varco nella nube lugubre lasciata dalla mente malvagia dello Spettro. Tutti gli eventi da quando aveva trovato l’uovo di Saphira gli apparvero nella fredda luce della rivelazione: i successi e i fallimenti; le persone e le cose care che aveva perso e i doni lucenti del fato generoso. Per la prima volta fu orgoglioso di essere soltanto chi era. Come per ribellarsi al nuovo barlume di fiducia in se stesso, le tenebre soffocanti dello Spettro lo assalirono di nuovo. La sua identità sì perse nel vuoto mentre l’incertezza e la paura gli consumavano le percezioni. Chi era, per pensare di poter sfidare i poteri di Alagasëia e restare vivo?
Lottò contro i pensieri sinistri dello Spettro, debolmente, al principio, poi sempre più forte.
Mormorò parole nell’antica lingua e scoprì che gli davano la forza di resistere alle ombre che gli affollavano la mente. Le sue difese ancora vacillavano, ma cominciò lentamente a raccogliere i frammenti della sua coscienza per formare un guscio luminoso intorno al nucleo. Fuori dalla sua mente era consapevole di un dolore così forte da minacciare di togliergli la vita, ma qualcosa, o qualcuno, sembrava tenerlo a bada.
Era ancora troppo débole per schiarirsi del tutto la mente, ma era abbastanza lucido da passare in rassegna le sue esperienze fin da Carvahall. Dove sarebbe andato adesso... e chi gli avrebbe mostrato la via? Senza Brom, non c’era nessuno a guidarlo o a fargli da maestro.
Vieni da me.
Si ritrasse al contatto di un’altra coscienza, così vasta e potente da parere una montagna torreggiantè su di lui. Era colui che bloccava il dolore, si rese conto. Come nella mente di Arya, anche in questo scorreva una musica: corde d’ambra che vibravano di una magistrale malinconia.
Finalmente osò chiedere: Chi sei?
Uno che può aiutarti. Con un bagliore di pensiero non espresso, l’influenza dello Spettro venne spazzata via come una ragnatela fastidiosa. Libero dal peso opprimente, Eragon lasciò che la sua mente si espandesse fino a toccare una barriera oltre la quale non gli era permesso di andare. Ti ho protetto come meglio ho potuto, ma sei così lontano che non ho potuto far altro che schermarti dal dolore.
Di nuovo: Chi sei, tu che fai questo?
Un cupo brontolio . Sono Osthato Chetòwa, il Saggio Dolente. E Togiro Ikonoka, lo Storpio Che è Sano. Vieni da me, Eragon, poiché io ho le risposte che cerchi. Non sarai al sicuro finché non mi troverai.
Ma come faccio a trovarti se non so dove sei? domandò Eragon, disperato.
Fidati di Arya e va’ con lei a Ellesméra... io sarò lì. Ho aspettato molte stagioni, perciò non indugiare, o potrebbe essere troppo tardi... Tu sei più grande di quanto credi, Eragon. Pensa a quello che hai fatto e rallegrati, perché hai liberato la terra da un grande male. Hai compiuto un’impresa che nessun altro avrebbe potuto compiere. Molti sono in debito con te.
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