— Mi stavo chiedendo, vista la pioggia, se li dobbiamo davvero far uscire lungo il perimetro. Potremmo tenerli tutti qui dentro, «paxarli», lasciarli sotto la supervisione d’un paio di nostri…
— Aspettiamo a vedere cosa succede — l’interruppe Elszabet. — Forse tutta la faccenda risulterà, comunque, un falso allarme.
— Lo credi?
— Sarebbe bello, no?
— Ascolta — riprese Dante Corelli. — Ne manca ancora qualcuno. Forse dovresti telefonare alla mensa e sollecitarli a sbrigarsi, no?
— Chi non è ancora arrivato?
— Dunque… April, Ed Ferguson, Padre Christie. No, ecco che Padre Christie sta arrivando, proprio adesso. Così, mancano soltanto Ed Ferguson e April. Altrimenti la banda è al completo, in palestra.
— C’è anche Tom?
— No. Non so dove sia.
— Dovremmo saperlo. Se dovesse farsi vivo, chiamami.
— Lo farò — promise Dante.
— Ed io controllerò gli altri che mancano. In questo momento, comunque, ti sto parlando direttamente da appena fuori della mensa. Se sono là dentro, te li mando in cinque minuti e anche meno.
Elszabet raggiunse il lato del quartier generale rivolto verso l’edificio della mensa e diede un’occhiata all’interno. Non c’era nessuno in vista, salvo uno dei ragazzini della cittadina che puliva i vassoi vuoti e scopava il pavimento. — Sto cercando un paio di pazienti — lei gli disse. — April Cranshaw, una donna grande, grassa e tonda, sulla trentina, e il signor Ferguson. Sai qual è?
Il ragazzino annuì. — Sicuro che li conosco, dottoressa Lewis. Credo che nessuno dei due si sia fatto vivo per colazione, oggi.
— No?
— Quell’April, è difficile non vederla, sa.
Elszabet sorrise. — Vorrei trovarli. Se dovessero arrivare mentre sei ancora qui, da’ un colpo di telefono in palestra, per favore, e dillo a Dante Corelli, poi mandali da lei.
— Certo, dottoressa Lewis.
— E hai visto Tom? Sai, quello nuovo, quello con gli occhi strani.
— Tom… già. No, neppure lui si è visto, stamattina.
— Strano. Tom è il tipo che odia perdere un pasto. Be’, lo stesso vale anche per lui. Se lo vedi, chiama Dante.
— Bene, dottoressa Lewis.
Elszabet tornò a uscire. Si sentiva curiosamente tranquilla, il tipo di sensazione che si prova nell’occhio del ciclone. Per prima cosa, disse a se stessa, vai al dormitorio, controlla se April è ancora a letto, o Ferguson. In una mattina come questa potrebbero aver deciso di non alzarsi specialmente perché non c’è stata nessuna chiamata per la mondata… La pioggia le sferzò il viso, sempre più incattivita, come una burrasca di mezzo inverno. Il terreno la stava assorbendo tutta, così secco dopo cinque mesi ininterrotti di bel tempo, ma se la pioggia avesse continuato a venir giù così, entro la sera avrebbero finito per sguazzare nel fango. Durante i mesi estivi c’era la tendenza a dimenticarsi, pensò, di che razza di pasticcio potesse essere la stagione delle piogge.
Per prima cosa trova April e Ferguson… sì, certo. Poi rintraccia Tom. E poi avrebbe dovuto raggiungere il cancello anteriore per vedere come Lew Arcidiacono se la stava sbrigando con l’installazione della barriera d’energia. Dopo, sarebbe stata soltanto questione di aspettare la fine della giornata, facendo quant’era possibile per assicurarsi che i marciatori di San Diego aggirassero il Centro invece di passarci attraverso. I marciatori erano un problema di cui in questo momento avrebbe fatto volentieri a meno, una distrazione stupida, estranea. Sapeva che era Tom il grande avvenimento di cui avrebbe dovuto occuparsi in questo momento. Tom e le sue visioni, i suoi poteri quasi magici, Tom e i suoi mondi galattici… i mondi che adesso, grazie alle telecamere della Sonda Stellare, sapeva esser reali, veri, autentici pianeti abitati che stavano trasmettendo allettanti immagini di sé attraverso la strana mente di quell’uomo sulla Terra…
Come se avesse ricevuto un’imbeccata, qualcosa solleticò la mente di Elszabet. Una luce arcana cominciò ad ardere dietro i suoi occhi. No, pensò furiosa, non adesso. Per l’amor di Dio, non adesso.
Ogni cosa che vedeva proiettava ombre sottili, una dai contorni gialli, una rosso-arancione. Nel cielo, una nebulosa pallida e rosata si allargava come una grande piovra attraverso l’orizzonte. E delle creature si muovevano intorno, sferiche, dalla pelle azzurra, con grappoli di tentacoli che si agitavano sulle loro teste. Riconobbe quel paesaggio, quelle stelle, quegli esseri sferici. La Stella Doppia Tre stava entrando nella sua mente. Proprio in quel momento, là fuori, in mezzo alla pioggia sferzante, mentre camminava dalla sala della mensa verso il dormitorio, lei stava scivolando via verso quell’altro mondo.
No, pensò. No. No. No.
Fece un paio di passi barcollando e, vacillando, raggiunse un grande rododendro in mezzo al prato, si afferrò a un paio dei suoi rami, stordita, ondeggiante, cercando di respingere la visione. Questo è un cespuglio di rododendro, si disse. Questa è un piovosa mattina dell’ottobre 2103. Questa è la Contea di Mendocino, California, pianeta Terra. Io sono Elszabet Lewis, e sono un essere umano nativo del pianeta Terra, e oggi ho bisogno di tutto il mio senno.
Una voce raschiante alle sue spalle disse: — Sta bene, signora? Le serve qualche aiuto?
Elszabet si girò di scatto, sorpresa, disorientata. La Stella Doppia Tre si frantumò in molti pezzi e precipitò via da lei, quando si trovò davanti a tre stranieri. Tipi duri, cattivi. Uno con una folta barba nera e occhi profondamente incassati, quasi sepolti nelle cerchiature nere, uno col volto magro tutto pieno di cicatrici con dei profondi crateri dovuti a qualche malattia della pelle, e uno, basso e brutto con una zazzera d’incolti capelli rossi, il quale pareva ancora più cattivo degli altri due.
Elszabet li fronteggiò e, con quanta più freddezza possibile, si passò la mano sui capelli, attivando il trasmettitore. Doveva essere ancora sintonizzato sulla frequenza B, Dante Corelli avrebbe dovuto captare la trasmissione in palestra.
— Chi siete? — chiese. — Cosa state facendo qui?
— Non c’è bisogno che si spaventi, signora — disse quello col volto pieno di cicatrici. — Non abbiamo intenzione di farle del male. Abbiamo pensato che si sentisse male o qualcosa del genere, attaccata lì a quell’arbusto.
— Vi ho chiesto chi siete — lei ripeté, un po’ più vivacemente. Le dava fastidio il fatto che l’uomo dal volto cicatrizzato potesse pensare che lei fosse spaventata, anche se era vero. — Vi ho chiesto cosa fate qui.
— Be’, noi… noi… — cominciò a dire quello con le cicatrici.
— Chiudi il becco, Buffalo — l’interruppe l’altro con la barba nera. Poi, rivolto a Elszabet: — Stavamo soltanto passando. Stavamo cercando di trovare un amico che pare si sia perso da queste parti.
— Un amico?
— Un uomo chiamato Tom, forse lei lo conosce. Alto, magro, dall’aria un po’ strana…
— So chi vuol dire, sì. Lei sa di trovarsi su una proprietà privata, signor… signor…
— Sono Charley.
— Charley. Siete con la marcia dei tumbondé, vero?
— Vuol dire quell’accozzaglia di San Diego? Tutti quei matti? Ehi, no, non noi. Noi stavamo soltanto passando. Abbiamo pensato che forse potevamo trovare il nostro amico Tom, portarlo con noi, andarcene da qui prima che arrivino i matti. Sa quanti sono là fuori, subito in fondo alla strada?
Adesso Elszabet vide Dante che usciva dalla palestra, c’erano altre due o tre persone con lei. Si tenevano indietro, osservando guardinghi la scena, ascoltando la conversazione di Elszabet con i tre stranieri. Elszabet disse: — Il vostro amico Tom non si trova qui, adesso. E in ogni caso non credo che abbia in mente di andare da qualche parte. Quello che vi suggerisco di fare è di andarvene subito da questo terreno, per il vostro bene, d’accordo? Come lei ha detto, c’è una bella folla subito in fondo alla strada, e se dovessero fare irruzione qua dentro, non posso essere responsabile della vostra sicurezza. E inoltre si dà il caso che abbiate violato una proprietà privata.
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