Dulaq si lasciò trasportare dalla scala mobile fino al livello superiore, riservato ai pedoni, poi scese e si affacciò al parapetto. La città si stendeva tutt’intorno a lui. Ampie strade piene di gente affaccendata, marciapiedi pedonali, viali riservati alle auto, aeromobili che luccicavano tra gli alti edifici sfavillanti di luci.
In un angolo imprecisato della grande città c’era l’uomo che Dulaq doveva uccidere. O che forse avrebbe ucciso lui.
Sembrava tutto così reale! I rumori del traffico, il profumo degli alberi che costeggiavano i viali, e persino il calore del sole rossastro che gli scaldava la schiena mentre lui guardava la scena che si svolgeva sotto i suoi occhi.
È un’illusione, pensò Dulaq, un’abile allucinazione creata dall’uomo. Un’invenzione della mia fantasia, ampliata da una macchina.
Eppure, sembrava tanto reale.
Reale o no, bisognava trovare Odal prima del tramonto, doveva scovarlo e ucciderlo. Quelle erano le condizioni del duello. Dulaq tormentò con le dita la tozza bacchetta cilindrica che portava nella tasca della tunica: era l’arma che aveva scelto. La sua arma. L’aveva inventata lui. E quello era l’ambiente che aveva scelto lui: la sua città, affaccendata, rumorosa, affollata. La metropoli che conosceva e amava fin dall’infanzia.
Si voltò a guardare il sole. Era a mezza strada verso l’orizzonte. Restavano ancora tre ore per trovare Odal. E una volta che l’avesse trovato… doveva ucciderlo, o essere ucciso da lui.
Certo, nessuno resta ferito davvero. È questo il pregio della macchina. Un individuo può regolare un conto e sfogare la propria carica di aggressività senza che lui o l’avversario riportino un danno fisico o mentale.
Dulaq si strinse nelle spalle. Era un uomo pingue, con la faccia da luna piena e le spalle leggermente spioventi. E aveva una missione da compiere. Una missione spiacevole, per un uomo civile… Ma il futuro dell’Ammasso d’Acquatainia e le alleanze di questo con i limitrofi sistemi stellari dipendevano dalla riuscita di quel sogno sintetizzato elettronicamente.
Si voltò e percorse il viale sopraelevato, meravigliandosi per la violenta sensazione di realtà che provava a ogni passo. I bambini gli passavano accanto correndo e andavano a schiacciare il naso contro la vetrina di un negozio di giocattoli. Seri uomini d’affari camminavano dignitosamente, ma senza perdere una sola occasione di sbirciare le ragazze che incontravano.
Ho una fantasia meravigliosa, pensò Dulaq, sorridendo.
Poi ripensò a Odal, al guerriero biondo e gelido contro cui si stava battendo. Odal, esperto in ogni genere di armi, dotato di grande forza e di fredda precisione, era un vero e proprio strumento incapace di emozioni, al servizio di uno spietato uomo politico. Ma come poteva essere pratico della bacchetta cilindrica se l’aveva vista solo un attimo prima dell’inizio del duello? E come poteva conoscere quella metropoli se aveva passato la maggior parte della sua vita negli attendamenti militari, sugli squallidi pianeti di Kerak, a sessanta anni-luce da Acquatainia?
Odal si sarebbe trovato svantaggiato, e avrebbe tentato di nascondersi tra la folla. Bisognava soltanto trovarlo.
Le condizioni del duello limitavano i due contendenti ai marciapiedi riservati ai pedoni, nel quartiere commerciale della città. Dulaq, che conosceva a fondo la zona, cominciò a cercare con metodo, tra la folla, un uomo alto, dagli occhi azzurri e i capelli biondi.
Finalmente lo vide. Solo dopo qualche minuto di cammino lungo il viale principale aveva individuato l’avversario, che passeggiava calmo su un marciapiede, al livello sottostante. Dulaq si precipitò giù per la rampa, si fece strada tra la folla, e vide nuovamente il suo uomo. Alto, biondo, inconfondibile. Lo seguì, silenziosamente, agilmente, senza affrettarsi. Aveva a disposizione tutto il tempo che voleva. Dopo un quarto d’ora la distanza che divideva i due si era ridotta da cinquanta a cinque metri.
Infine Dulaq si trovò proprio dietro la sua vittima. Strinse la bacchetta cilindrica e la tirò fuori di tasca. Con un rapido movimento la puntò alla nuca dell’uomo e cominciò a premere il pulsante che avrebbe liberato una scarica mortale di energia.
L’uomo si voltò di scatto. Non era Odal!
Dulaq balzò indietro, allibito. Impossibile! L’aveva visto in faccia. Era lui… Eppure, quello era un estraneo. Dulaq ne sentì lo sguardo fisso sopra di sé, mentre si allontanava rapidamente.
Uno sbaglio, pensò. Sei troppo preoccupato. Per fortuna si tratta di un’allucinazione, altrimenti la polizia automatica ti avrebbe già arrestato, a quest’ora!
Eppure aveva avuto la certezza che quell’uomo fosse Odal. Si sentì percorrere da un brivido. Alzò gli occhi e vide il suo avversario sul viale sopraelevato, nel punto preciso in cui si trovava lui stesso pochi momenti prima. I loro sguardi si incrociarono e le labbra di Odal si schiusero in un gelido sorriso.
Dulaq si affrettò su per la rampa, ma quando raggiunse il livello superiore l’altro se n’era già andato. Però non poteva essere lontano.
Lentamente l’allucinazione si sgretolò in un incubo. Dulaq aveva individuato Odal tra la folla ma se l’era lasciato sfuggire. L’avrebbe ritrovato, ma scoprendo ancora che si trattava di uno sconosciuto. Più volte sentì addosso il gelido sguardo dell’avversario, ma appena si girava vedeva soltanto la folla anonima.
Le ombre cominciarono ad allungarsi: il sole stava tramontando. Dulaq sentiva il cuore martellargli in petto e il sudore gocciolare da ogni centimetro quadrato della pelle.
Eccolo! Sì, era proprio lui, e senza possibilità di errore! Dulaq si fece largo a gomitate tra la folla e si diresse verso un tipo alto e biondo, che se ne stava appoggiato tranquillamente al parapetto del viale principale della città. Era Odal, quel maledetto Odal, sorridente e sicuro di sé.
Dulaq strinse la bacchetta e si avvicinò ansante al punto in cui l’altro se ne stava immobile, le mani in tasca, guardandolo impassibile.
SIGNORI, IL TEMPO È SCADUTO. IL DUELLO È FINITO.
L’Ammasso di Acquatainia, simile a un portagioielli principesco pieno di centinaia di stelle, era poco lontano dalle frontiere della Federazione Terrestre. Più di mille pianeti orbitavano intorno a quelle stelle, e il principale, Acquatainia, vantava la più grande città dell’ammasso dove c’era l’università più antica di tutte. E, nell’università, c’era la duellomacchina.
Nella sala di un bianco atroce in cui era sistemata la macchina, c’era, in alto, una piccola tribuna. Prima che vi venisse installata l’apparecchiatura, il locale era servito da aula. Ora le file dei banchi degli studenti, la pedana con la cattedra e tutto il resto erano scomparsi. Nella sala c’era soltanto la macchina: una collezione mostruosa di pannelli, banchi di prova, gruppi elettrogeni e circuiti d’associazione. Due cabine ospitavano i duellanti.
Nella tribuna, completamente vuota durante i duelli comuni, stava un gruppetto di giornalisti privilegiati.
— Il tempo è scaduto — disse uno di questi. — Dulaq non l’ha acciuffato.
— Già, ma neanche Odal ha beccato Dulaq.
Il primo giornalista strinse le spalle. — Ora Dulaq dovrà battersi contro Odal, alle sue condizioni.
— Aspettate, stanno uscendo.
Nell’aula, Dulaq e il suo avversario abbandonavano le rispettive cabine.
Ad uno dei cronisti sfuggì un fischio soffocato. — Guardate la faccia di Dulaq! È terrea.
— Non ho mai visto il primo ministro così sconvolto.
— E guardate un po’ quell’assassino stipendiato da Kanus… — Il reporter si voltò verso Odal. Stava davanti alla sua cabina e chiacchierava tranquillamente con i secondi.
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