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Roger Zelazny: Il boia torna a casa

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Roger Zelazny Il boia torna a casa

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Vincitore dei premi Hugo e Nebula per il miglior romanzo breve in 1976. Anche pubblicato come “Il vendicatore”, “Il canto del delfino”, “Il mio nome è Legione”.

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— È la prima volta che ci salgo — disse. — Comodo.

— Grazie… Latte? Zucchero?

— Sì. Tutti e due.

Ci accomodammo con le tazzine fumanti ed io chiesi: — Cosa c’è, questa volta?

— Un caso che implica due problemi — rispose. — Uno di essi praticamente ricade nella mia area di competenza. L’altro no. Mi è stato detto che si tratta di una situazione assolutamente unica e che richiede i servizi di uno specialista veramente valido.

— Non sono uno specialista in nulla tranne che nella sopravvivenza.

Il suo sguardo si legò improvvisamente al mio.

— Ho sempre pensato che tu ne sapessi abbastanza, di computer — disse.

Distolsi lo sguardo. Quello era un colpo basso. Non mi ero mai presentato a lui come un’autorità in quel campo, e c’era sempre stato tra noi un tacito impegno sul fatto che i miei metodi di manipolare le circostanze e le identità non dovevano mai venire discussi. D’altra parte, per lui era evidente che le mie nozioni in quel campo dovevano essere al tempo stesso estensive ed intensive. Non mi piaceva parlarne. Così mi misi sulla difensiva.

— I computer oggi li conoscono praticamente tutti — dissi. — Probabilmente ai tuoi tempi le cose erano diverse, ma ora cominciano ad insegnare la scienza dei computer fin dal primo anno di scuola ai bambini. Certo, ne so parecchio. In questa generazione, tutti sono preparati.

— Sai benissimo che non è a questo che mi riferisco — disse. — Non mi conosci da abbastanza tempo da concedermi un po’ più di fiducia? La domanda deriva solo dal caso che stiamo prendendo in considerazione. Tutto qui.

Annuii. Le reazioni più spontanee non sono sempre appropriate, ed io mi ero lasciato coinvolgere a livello emotivo. Così aggiunsi: — D’accordo, ne so qualcosa di più dei bambini delle scuole.

— Grazie. Può essere un punto di partenza. — Sorseggiò il caffè. — La mia preparazione è in legge e in giurisprudenza, seguita da esperienze nell’Intelligence militare, e dal servizio civile, in quel settore. Quel poco che so di tecnica l’ho raccolto qua e là nel tempo… una notizia qui, un corso accelerato là. So parecchio sulle cose che possono fare, ma non molto sul modo in cui funzionano. Non ho capito i dettagli di questo caso, così vorrei che tu cominciassi dal principio e mi spiegassi la cosa, fintanto che ti è possibile. Ho bisogno di comprendere lo sfondo della situazione, e se tu sei in grado di spiegarmelo saprò anche se tu sei la persona adatta per questo incarico. Puoi incominciare col dirmi come funzionavano i primi robot adibiti alle ricerche spaziali… diciamo, quelli che sono stati impiegati su Venere.

— Non erano computer — dissi. — E peraltro non erano neanche robot. Erano apparecchiature telefattrici.

— Spiegami la differenza.

— Un robot è una macchina che effettua determinate operazioni seguendo un certo programma di istruzioni. Un telefattore è una macchina schiava, messa in azione da un comando esterno. Il telefattore agisce in una specie di simbiosi con il suo operatore. A secondo della sofisticazione che si desidera raggiungere, i collegamenti possono essere audiovisivi, cinetici, tattili, perfino olfattivi. Più ci si spinge in questa direzione, più la struttura diventa antropomorfa.

«Nel caso di Venere, se ricordo esattamente, l’operatore umano in orbita portava un esoscheletro che controllava i movimenti del corpo, delle braccia, delle gambe e delle mani dell’apparecchiatura posta sulla superficie sottostante che riceveva energia e movimento per mezzo di un sistema di trasduttori aerei. Portava anche un elmetto che controllava la camera televisiva della macchina che riempiva il suo quadro visivo con la scena sottostante. Indossava anche auricolari collegati con il suo sistema auditivo. Ho letto il libro che scrisse in seguito. Disse che per lunghi periodi di tempo dimenticava l’esistenza della cabina, dimenticava che si trovava all’estremità operativa di una complessa apparecchiatura, e sentiva realmente di star calcando il suolo di quel pianeta infernale. Ricordo di esserne rimasto molto colpito, anche perché ero ancora bambino, e volevo averne anch’io uno tutto per me, e poter andare e combattere con i microorganismi.

— Perché?

— Perché su Venere non c’erano draghi. In ogni modo, quello era un apparecchio telefattore, una cosa abbastanza diversa da un robot.

— Ti seguo — disse, poi: — Adesso spiegami la differenza tra i primi telefattori, e gli ultimi modelli.

Versai altro caffè.

— Le cose furono un po’ più complicate per quanto riguardava i pianeti esterni e i loro satelliti — dissi. — Lì, in primo luogo non disponevamo di operatori in orbita. Problemi economici, ed alcuni fattori tecnici ancora irrisolti. Principalmente però per cause economiche. In ogni modo, gli apparecchi venivano fatti atterrare sul pianeta prescelto, ma l’operatore rimaneva a casa. A causa di ciò, c’era ovviamente un divario di tempo nelle trasmissioni. Ci voleva un po’ per ricevere gli impulsi, e poi c’era un’altra pausa prima che gli impulsi di ritorno raggiungessero il telefattore. Tentammo di compensare queste pause in due modi: il primo sistema era una semplice sequenza di attesa-movimento; il secondo era più sofisticato, ed è in effetti il punto in cui i computer entrano in gioco, nel senso di partecipare alla funzione di controllo. Richiedeva l’elaborazione di modelli di fattori ambientali conosciuti, che venivano poi arricchiti durante le prime sequenze di attesa-movimento. Su questa base, il computer venne quindi utilizzato per prevedere sviluppi a breve termine. Infine, fu in grado di assumere il controllo dello strumento e dirigerlo per mezzo di una combinazione di «controlli di previsione» e di schemi di attesa-movimento. Però, era sempre indispensabile l’aiuto umano, quando si presentava un elemento imprevisto. Così, per quanto riguardava i pianeti esterni, non era né totalmente automatico né totalmente manuale… né totalmente soddisfacente… sulle prime.

— D’accordo — disse, accendendosi una sigaretta. — E il passo seguente?

— Il seguente non fu un passo propriamente tecnico nel settore dei telefattori. Fu un passo economico. I cordoni della borsa furono finalmente allentati, e potemmo permetterci di inviare anche esseri umani. Li facemmo atterrare dove potevamo, ed in molti casi in cui l’atterraggio era impossibile, facevamo atterrare i telefattori lasciando gli uomini in orbita. Come ai vecchi tempi. Il problema del divario di tempo venne abolito perché adesso l’operatore si trovava di nuovo sulla scena dell’operazione. Se non altro, lo si può considerare un ritorno ai vecchi metodi. È quello che fanno spesso ancor oggi, e funziona bene.

Scosse la testa.

— Hai lasciato fuori qualcosa tra i computer e l’ultima soluzione.

Mi strinsi nelle spalle.

— In quel periodo sono state tentate molte soluzioni, ma nessuna si è rivelata efficace come quella che già avevamo nella collaborazione uomo-computer con il telefattore.

— Ci fu un progetto — disse — che tentò di aggirare i problemi del divario di tempo inviando il computer insieme al telefattore. Sai a cosa mi riferisco?

Accesi una delle mie sigarette mentre ci pensavo. — Penso che tu stia parlando del Boia — dissi.

— Esatto, ed è qui che mi perdo. Puoi spiegarmi come funziona?

— In ultima analisi, si è rivelato un fallimento — risposi.

— Ma sulle prime funzionava.

— Apparentemente. Ma solo in casi semplici, come su Io. In seguito si inceppò e venne considerato un fallimento, anche se grandioso. Il tentativo era troppo ambizioso fin dall’inizio. Sembra che coloro che dirigevano il tutto avessero avuto la possibilità di combinare progetti avanguardistici… tecniche che erano ancora sotto studio, ed altre estremamente nuove. In teoria, sembrava che tutto dovesse adattarsi in maniera talmente perfetta che cedettero alla tentazione ed incorporarono troppe cose. Cominciò bene, ma crollò quasi subito.

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