Various - La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I
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- Название:La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I
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La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte I: краткое содержание, описание и аннотация
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Gli uomini che s'erano illusi di poter dare nel 1821 istituzioni costituzionali al Piemonte, erano tutti amici commensali del principe di Carignano. Se dunque o il Lisio o il Balbo o il Santarosa o il Collegno, tutti insieme, come pare, disvelarono a Carlo Alberto i loro vincoli colle società segrete, chiedendogli appoggio per ottenere promesse liberali dal Re, doveva essere in loro fortissima la speranza che l'adesione di un personaggio così vicino al trono avrebbe nel tempo stesso dato guarentigie maggiori al successo della loro impresa e sopra tutto giustificata in loro un'attitudine, che, da parte di ufficiali e di funzionari pubblici, poteva sembrare passabilmente arrischiata.
Quale fu la risposta di Carlo Alberto? Una conferma dei sentimenti liberali manifestati nell'intimità di antecedenti colloqui; un serio ammonimento circa l'impossibilità che in quel momento l'impresa riuscisse; la più esplicita dichiarazione che in nessun caso egli avrebbe aiutata una soluzione, a cui il Re legittimo fosse contrario. Si sono potute ammucchiare contro Carlo Alberto centinaia di pagine; non s'è mai potuto accertare che altre da queste siano state le sue dichiarazioni.
Ora, sia che i congiurati abbiano afferrata a volo la prima frase, dimenticando le altre; sia, com'è più probabile, che il moto li abbia trascinati, al solito, più in là delle loro previsioni, non avevano essi il diritto di affermare la complicità di Carlo Alberto in una impresa, uscita affatto dai limiti, nei quali egli avrebbe potuto accettarla.
E se, malgrado gli ammonimenti suoi, la congiura, prorompendo a rivoluzione, lo poneva nel bivio di diventare un ribelle o di restare un principe di casa Savoia, chi oserebbe, specialmente oggi, fargli una colpa d'aver voluto rimaner tale?
Non egli dunque tradì i congiurati; ma la congiura tradì lui e tutti, portando la situazione a conseguenze non prevedute, a scopi non proporzionati ai mezzi militari, finanziari e politici, di cui la congiura poteva disporre. E, del resto, questo compresero così bene, dopo le prime amarezze, i congiurati stessi, che poi ad uno ad uno si raccostarono al principe calunniato, e ridivennero prima ancora del 1848, i più fedeli suoi consiglieri, i suoi amici più cari. Nè a quel gran sofferente venne mai meno la generosità dell'oblio. Poichè, quando gli accadde, verso il 1846, d'aver bisogno d'un segretario, offrì il posto e lo stipendio a quel poeta Giovanni Berchet, che lo aveva, pei fatti del 1821, flagellato di versi così crudeli. E il Berchet, declinando con animo commosso l'offerta, diceva all'amico suo Carlo d'Adda, oggi senatore del Regno: «Darei dieci anni della mia vita per non avere scritto quei versi».
E veniamo al 1833. In quell'anno, come è noto, un'altra congiura politica, a cui non erano pure estranei alcuni ufficiali, era stata ordita in Piemonte sotto le prime influenze della propaganda mazziniana, disciplinata nella Giovane Italia . Pioveva, come suol dirsi, sul bagnato; poichè soltanto due anni prima, all'epoca della proclamazione di Carlo Alberto, una setta repubblicana aveva reclutato tra le stesse guardie del Corpo alcuni proseliti disposti ad assassinare il Re. Scoperta la prima cospirazione, il Re fu clemente e si limitò a chiudere in Fenestrelle il capo della congiura 1 1 Nicomede Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia , vol. IV, pag. 55.
. Scoperta la seconda, l'atteggiamento diventò severissimo e il Re deferì i colpevoli al giudizio dei consigli di guerra. Questi procedettero, secondo l'indole loro, inesorabili e le condanne a morte furono più d'una. Nessuno affermò che con quelle condanne si fossero violate le disposizioni della legge stataria vigente, ma tutti deplorarono che Carlo Alberto non avesse usato più largamente del suo diritto di grazia.
E lo deploro anch'io. Però non si può non pensare che questo diritto di grazia costituirebbe nei nostri codici una bugia, se i Principi se lo vedessero sotto mano tramutato in dovere; se a loro non fosse mai lasciata nessuna libertà di considerare i tempi, le circostanze, le difficoltà dello Stato. Si possono desiderare i Principi sempre magnanimi; non si possono vituperare i Principi anche severi, se la giustizia non è offesa dagli atti loro.
Carlo Alberto si trovava ne' suoi primi mesi di regno. La sua condotta era gelosamente investigata dagli altri monarchi europei, nei quali non si poteva dissipare la nube di sospetti, addensata, pei casi del 1821, intorno a lui. Ebbe egli il sentimento che la severità legale fosse in quella occasione l'unico modo di uccidere quei sospetti per sempre e di lasciargli intera l'indipendenza de' suoi movimenti per l'avvenire? o fu veramente dominato dal pericolo che quei tentativi settarî, specialmente rivolti contro l'esercito, si riprendessero e scuotessero nella sua compagine la monarchia, di cui divisava fare più tardi una macchina per l'indipendenza italiana?
Certo è che i procedimenti susseguiti a quelle agitazioni parvero eccedere ogni misura di colpa, e ne restò sulla condotta di Carlo Alberto lungo rimprovero di liberali. Ci vollero gli eroismi e le sventure del biennio 1848-49 perchè quelle impressioni rimanessero interamente dimenticate.
Del resto, non erano tempi facili, nè pei popoli, nè pei principi; difficili specialmente per quel principe, che voleva e diede più tardi al suo popolo istituzioni a cui nessun principe italiano contemporaneo si rassegnava di buona fede. Al duca d'Aumale, venuto alcuni anni dopo a visitarlo, Carlo Alberto diceva: «Je suis entre le poignard des Carbonari et le chocolat des Jésuites». Non è dunque storicamente giusto il biasimo inflitto dagli scrittori intransigenti alla contraddizione quasi tragica nella quale oscillò Carlo Alberto, prima della sua ultima e grande evoluzione politica. Quella contraddizione poteva essere in parte attribuita all'indole del tempo. Fra il Metternich, che minacciava di detronizzare Carlo Alberto a beneficio del duca di Modena, e il Mazzini che s'agitava per detronizzarlo a beneficio della Repubblica, la via sempre diritta non si vedeva chiara.
I sovrani hanno, anche più degli altri uomini, il diritto d'essere giudicati sopra l'insieme della loro vita, non sopra episodi passeggieri, di cui ordinariamente non si scoprono e non si misurano che assai tardi le varie responsabilità.
Nel 1821, un principe d'impulsi subitanei, ma di scarsa previdenza, avrebbe forse potuto strappare ai pubblicisti del tempo un grido d'ammirazione, rinunciando ai suoi diritti dinastici per combattere una battaglia disperata in nome della libertà. Ebbene? quale ne sarebbe stato l'effetto? ch'esso avrebbe dovuto, dopo la sconfitta, o andare a morire in Grecia, come Santorre di Santarosa, o trascinare per tutte le capitali europee l'antipatica figura di un principe spodestato. Il Berchet non avrebbe scritta la sua fiera apostrofe, ma sul trono sabaudo si sarebbe assiso il carnefice di Ciro Menotti, e forse l'Italia starebbe ancora meditando, per secoli, il problema della sua esistenza.
Carlo Alberto fu assai meglio inspirato. Affrontò, con mesto animo, ma con grande energia morale l'ingiustizia de' suoi contemporanei. Scelse Iddio e la storia a giudici suoi. E la storia certamente gli perdonerà qualche menda de' suoi primi anni, ricordando la grandezza degli ultimi; nei quali la sua lealtà non può essere pareggiata che dal suo ardimento, e la semplicità del sacrificio è in perfetta armonia colla nobiltà della causa per cui lo fece.
In questa differenza tra il pensiero politico di Carlo Alberto e il pensiero, o meglio il metodo politico degli altri principi della penisola, sta il segreto dell'avviamento che prese la storia d'Italia dopo il 1846.
E poichè in una legge storica consolante già ci siamo imbattuti durante questa passeggiata italiana, vediamo di non isfuggirne un'altra, che pure al nostro pensiero si afferma.
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