Various - La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

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La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I: краткое содержание, описание и аннотация

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Di questo sentimento volle il Giusti essere l'interprete in quella forma di poesia, dove la servitù non pure aveva impedito le manifestazioni della verità nuda e cruda, ma aveva anzi favorito la sostituzione della burla, dell'equivoco, della dissimulazione, della bugia. Ed era complemento oggimai necessario, massime dopo i casi del '31 e l'avvento regio della borghesia in quella Francia ormai da più di quarant'anni teatro di tutto il mondo politico europeo, era, dico, necessario che la poesia nostra non solo derivasse dal passato le grandi ispirazioni e gli ammaestramenti, gli ammonimenti e i rimproveri, ma per entro al presente valesse e sapesse rimuginare il bene e il male della vita quotidiana, e in vive figure atteggiarlo: nè ciò poteva fare con efficacia, se non adattando a tale figurazione la veste dell'ironia, dello scherzo, dello scherno; nè questa veste poteva contessersi che di forme per eccellenza idiomatiche, cioè a dire toscane. Con tale concetto aveva il Leopardi data forma alla sua Batracomiomachia allegorica, ringiovanendo con felicità di grande artista il poemetto eroicomico; non però aspirando certamente con quello, in pieno secolo decimonono, a popolarità di lettori, di recitatori, d'imitatori. Con tale concetto Cesare Correnti, salutando anonimo l'anonimo Poeta toscano «delle vispe e mordenti caricature», dopo ricordato che «dalle sublimi imprecazioni dell'Alighieri alle calme e solenni proteste del Manzoni, la poesia non disertò mai la causa della patria e della sventura, non disperò mai della giustizia di Dio e dell'avvenire del Popolo», diceva che ben da Milano, quartier generale degli oppressori, eran venute le «melodie rossiniane» del Berchet, «ma dall'arguta Toscana, dalla patria del Berni e della commedia italiana, doveva venire il poeta popolare della satira e dello scherno».

IV

Di quale satira e di quale scherno, e in quanto simile e in quanto no a quelli dei predecessori, il Giusti lo ha raccontato in quell'aneddotino tra carnevale e quaresima, che intitolò I brindisi . Dove egli, raccolti in brigata i tipi appunto della sua satira, fa prima brindisare l'abate volterriano nelle solite sestine da colascione, lardellate di equivoci tra il grasso e il magro, il sacro e il profano; e poi s'alza lui, e in strofette saffiche dove il quinario è come l'aculeo dell'ape che sfiora e della vespa che punge, dà l'aíre al «Brindisi per un desinare alla buona»:

A noi qui non annuvola il cervello
la bottiglia di Francia e la cucina,
lo stomaco ci appaga ogni cantina
ogni fornello.

Chi del natio terreno i doni sprezza
e il mento in forestieri unti s'imbroda,
la cara patria a non curar per moda
talor s'avvezza.

O nonni, del nipote alla memoria
fate che torni, quando mangia e beve,
che alle vostre quaresime si deve
l'itala gloria.

Tutto cangiò: ripreso hanno gli arrosti
ciò che le rape un dì fruttaro a voi;
in casa vostra, o trecentisti eroi,
comandan gli osti.
E strugger poi, crocifero babbeo…

Al qual punto il malcapitato padron di casa interrompe, col pretesto del caffè; e il poeta ci regala la parte rimastagli in tal modo fra il bicchierino e la chicchera:

E strugger puoi, crocifero babbeo,
l'asse paterno sul paterno foco,
per poi, briaco, preferire il cuoco
a Galileo;
e bestemmiar sull'arti, e di Mercato
maledicendo il Porco, e chi lo fece,
desiderar che ve ne fosse invece
uno salato?

Oh beato colui che si ricrea
col fiasco paesano e col galletto!
senza debiti andrà nel cataletto,
senza livrea.

Programma, com'oggi dicesi, del suo poetare; in contrapposto, annotava egli stesso, alle «brutte facezie, che hanno avuto voga per tanto tempo, lusingando l'ozio e la scempiataggine».

E nella «Origine degli scherzi», altra saffica che ben a ragione è stata chiamata la sua «Arte poetica», dice come, dopo avere da giovine «sbagliato se stesso» e «pagato al Petrarca il noviziato», la coscienza aveva rettificata la sua vocazione, e di mezzo alle due scuole d'allora de' Classici e de' Romantici aveva fatto balzar fuori la satira sua paesana, «nel suo volgare, col suo vestito», satira nutrita d'amarezza e di sdegno, «riso che non passa alla midolla», come quello del saltimbanco,

che muor di fame, e in vista ilare e franco
trattien la folla.

E «a uno scrittor di satire in gala»

Vedi piuttosto

diceva

di chiamare al banco
i vizi del tuo popolo in toscano,
di chiamar nero il nero e bianco il bianco,
e di pigliare arditamente in mano
il dizionario che ti suona in bocca,
che, se non altro, è schietto e paesano.

Sul qual proposito, però, è bene intendersi; e mi parrebbe ormai l'ora, prima che s'esca dal secolo che fra poco a chiamar nostro rimarremo soli noi vecchi. È stata una superba malinconia de' signori ottocentisti (consegnamoci senz'altro alla storia), una malinconia superba o piuttosto una iattanza vana, questa: che solamente a' dì nostri la letteratura italiana si sia giovata della lingua viva o, come è di moda dire, parlata; e ciò specialmente a rovescio e in onta di quel gran signore che fu il Cinquecento, il quale, a sentir cotesti scriventi loro soli la lingua parlata, non fu che uno sfarzoso accozzatore di locuzioni boccaccevoli, di emistichii petrarcheschi, di periodi ciceroniani. La verità vera è invece, che ciascun secolo ha scritto la lingua che parlava, finchè e nello scrivere e nel parlare non è entrata, con la servitù politica e, peggio con la intellettuale e morale, la corruzione anche dell'idioma; il che fu solamente dopo passato il Secento: e che se a' nostri giorni, col rivendicare il diritto e lo stato politico di nazione, ce ne siamo altresì venuto rifacendo, il meglio che si poteva, il carattere; se per la restaurazione di questo nella lingua, si è voluto e saputo, dopo la regressione al nazionale antico operata artificialmente ma non senza utilità dai puristi, volgerci al nazionale vivente interrogando il popolo, e cioè il popolo di quella fra le regioni nostre che sola non abbia dialetto; tutto cotesto non vuol dire, come per certuni parrebbe, che la letteratura italiana incominci da quando si è racquistato il sentimento italico della toscanità; da quando l'unità della lingua in Firenze, non più astrazione litigiosa fra uomini di lettere dal Bembo al Monti, è divenuta una cosa dimostrata col fatto, meglio che con le teorie, dall'Autore dei Promessi Sposi ; nè che il Giusti (per tornare al nostro argomento) sia quello fra i poeti che abbia, lui per primo, dato l'esempio del «pigliare arditamente in mano il dizionario che ci suona in bocca»: lui che, del resto, in una delle sue prefazioni, definì la propria «un genere di poesia che può avvantaggiarsi di tutta la lingua scritta e di tutta la lingua parlata».

Sarebbe non breve discorso, e trattazione d'un argomento a sè, il mostrarvi come cotesto dizionario si è saputo maneggiar sempre e da tutti, grandi e piccini, anche nel prevalere di questo o quello stile (perchè altro è lingua, altro è stile) fatti invalere fra gli scrittori dall'autorità preponderante di questo o quello fra i nostri solenni maestri, e specialmente nel Cinquecento dal Boccaccio e dal Petrarca. Mi contenterò (e non voglio entrare nella prosa, solamente perchè vi parlo di poesia) mi contenterò di due soli esempi: e uno sia nientemeno che Dante. Non per la Commedia : la quale pure sappiamo oramai quanto grande portato ella sia, propriamente del volgar fiorentino del Due e Trecento (e le postille del Giusti al divino Poema mostrano com'egli ne sentisse tutta l' attualità , di contenuto e di forma); non pel Poema, dico, ma invece per certi Sonetti che Dante scrisse poco dopo il 1290, e che da quanto erano, diciamolo pure, piazzaioli, non si volevano nemmeno riconoscere per suoi; ma che pur troppo sono e suoi e del suo parente Forese Donati (colui che poi mandò, al Purgatorio fra i ghiotti), col quale fanno a dirsele a botta e risposta con quello zelo che in simili casi la parentela suole ispirare. Or bene, chi raffronti i documenti poetici di cotesta Tenzone di giovinastri con un certo Saggio di lingua parlata del Trecento cavato dai Libri criminali di Lucca da un ingegnoso erudito vivente, vedrà che il dizionario «schietto e paesano» del Giusti il divino Poeta lo sfoglia, pe' suoi tempi, con abbastanza modernità. L'altro esempio è di messer Angelo Poliziano, il poeta dell' Orfeo e della Giostra , il principe degli umanisti nel Rinascimento, che però fu anche il gaio rimatore delle Canzoni a ballo e dei Rispetti. Ora io vorrei potervi leggere un paio solamente di quelle vispe e succinte e ogni tanto sboccate poesiole, e ne sceglierei due che si potrebbero intitolare, l'una Il segreto d'amore e la confessione , e l'altra Il galletto, la chiocciola e la nave in porto ; e poi vorrei dimandarvi, se il Giusti, che nella sua piuttosto scarsa erudizione è presumibile non le abbia mai lette, avrebbe potuto ricusare all'eruditissimo fra i poeti la lode, che esso il Giusti, in quella sua Arte poetica degli Scherzi, si arrogava a buon diritto, di non avere «svisato i propri concetti» per l'ambizione di «tradurre sè stesso». Vi assicuro che le gentildonne fiorentine, leggendo a diletto in questo palazzo mediceo le strofette incantevoli del Poliziano, non avranno avuto alcun bisogno di ritradurre.

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