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Anne Rice: Memnoch il diavolo

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Anne Rice Memnoch il diavolo
  • Название:
    Memnoch il diavolo
  • Автор:
  • Издательство:
    Longanesi
  • Жанр:
  • Год:
    2002
  • Город:
    Milano
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    978-88-304-1930-8
  • Рейтинг книги:
    3 / 5
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Memnoch il diavolo: краткое содержание, описание и аннотация

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New York è stretta nella morsa di un inverno rigidissimo, ma i vampiri non sentono il freddo e Lestat, incontrastato principe delle tenebre, attende nella notte, pregustando il sangue della sua prossima vittima: Roger, un boss della droga. Una facile preda, se non fosse per uno strano turbamento che Lestat prova nei confronti della carismatica figlia dell’uomo, Dora. A dispetto degli inviti alla prudenza da parte dell’amico David Talbot, Lestat compie l’atto finale della caccia, affondando i denti nel collo di Roger. È un tragico errore: il fantasma del morto, infatti, minaccia di perseguitare Lestat se non si prenderà cura di Dora. Per il bene della sua nuova protetta, ma anche per liberarsi dall’angosciante sensazione di essere braccato — una sensazione che lo perseguita da tempo — il vampiro sarà costretto ad affrontare le sue paure più oscure e inconfessabili, perfino a costo di perdere la ragione. Una sfida che culminerà nello scontro con una creatura sovrannaturale, che dice di chiamarsi Memnoch e di essere nientemeno che il diavolo.

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E si allontanarono.

«Cantate», sussurrai. Stavo parlando ai fantasmi dei bambi­ni. «Cantate...»

Ma il convento era deserto. Tutti i piccoli fantasmi erano fug­giti. Il convento era mio. Il servo di Memnoch; il principe di Memnoch. Ero solo nella mia prigione.

26

Due notti, tre notti. Fuori, nella città del mondo moderno, il traffico sfrecciava nell’ampio viale. Ogni tanto passava una cop­pia, sussurrando nelle ombre della sera. Un cane ululava.

Quattro notti, cinque notti?

David era seduto accanto a me a leggere il manoscritto della mia storia, parola per parola, tutto ciò che avevo detto, come lo ricordava, fermandosi ripetutamente per chiedere se era esatto, se quelle erano davvero le parole che avevo pronunciato, se quel­la era l’immagine.

E lei rispondeva.

Dal suo posto nell’angolo confermava: «Sì, è questo che ha visto, è questo che ti ha detto. È questo che vedo nella sua men­te. Queste sono le sue parole. Questo è ciò che ha provato».

Finalmente, dopo circa una settimana, lei svettò sopra di me e mi chiese se avevo sete di sangue. Risposi: «Non lo berrò mai più. Diventerò secco come un oggetto duro fatto di calcare. Mi getteranno in una fornace».

Una sera venne Louis, sfoggiando la tranquilla disinvoltura di un cappellano che entri in una prigione, immune dalle regole ep­pure senza rappresentare una minaccia per esse. Si sedette al mio fianco a gambe incrociate, e guardò altrove, come se non fosse educato fissare me, il prigioniero, avvolto in catene e rabbia.

Posò le dita sulla mia spalla. I suoi capelli avevano un taglio alla moda, erano spuntati e pettinati, e non pieni di polvere. An­che i suoi abiti erano puliti e nuovi, come se si fosse vestito appo­sta per me. Quell’idea mi fece sorridere. Di tanto in tanto lo face­va, e quando vedevo che la camicia aveva bottoni d’oro e di perle lo capivo, e lo accettavo così come un malato accetta un panno fresco posato sulla sua fronte.

Le sue dita aumentarono leggermente la pressione sulla mia spalla, e anche quello mi piacque. Ma non intendevo dirglielo.

«Ho letto i libri di Wynken», disse. «Sai, li ho recuperati. So­no tornato a prenderli. Li avevamo lasciati nella cappella.» E mi guardò rispettosamente.

«Oh, grazie di averlo fatto», risposi. «Li ho lasciati cadere al buio. Li ho lasciati cadere quando ho allungato la mano per prendere l’occhio, oppure lei mi ha preso la mano? Comunque sia, ho lasciato cadere i sacchetti coi libri. Non riesco a spostare queste catene. Non posso muovermi.»

«Ho portato i libri nella nostra casa di rue Royale. Si trovano lì, sparpagliati come gioielli perché possiamo ammirarli.»

«Sì. Hai guardato le miniature? Le hai guardate davvero, vo­glio dire?» chiesi. «Io non le ho mai guardate davvero. Ho so­lo... stava succedendo tutto così in fretta, e non ho davvero avuto il tempo di aprire i libri. Ma se tu avessi potuto vedere il suo fan­tasma nel bar e sentire come li descriveva...»

«Sono splendidi. Sono magnifici. Li adorerai. Ti aspettano anni di piacere coi libri e la luce al tuo fianco. Ho soltanto inizia­to a guardarli e a leggerli. Con una lente d’ingrandimento. Ma tu non ne avrai bisogno. I tuoi occhi sono più forti dei miei.»

«Forse possiamo leggerli... tu e io... insieme.»

«Sì... tutti e dodici i suoi libri», rispose. Parlò sommessamen­te di piccole immagini miracolose, di esseri umani minuscoli, e animali e fiori, e il leone che giaceva con l’agnello.

Chiusi gli occhi. Ero colmo di gratitudine. Ero soddisfatto. Lui sapeva che non volevo più parlare.

«Resterò là, nel nostro appartamento, ad aspettarti. Non pos­sono tenerti qui ancora a lungo.»

Cosa significava, a lungo?

Sembrava che il clima fosse più mite.

David avrebbe potuto venire.

A volte chiudevo occhi e orecchie e mi rifiutavo di ascoltare qualunque suono volutamente indirizzato a me. Sentivo le cicale frinire quando il cielo era ancora arrossato dal sole, e gli altri vampiri dormivano. Sentivo gli uccelli che scendevano in pic­chiata sui rami delle querce di Napoleon Avenue. Sentivo i bam­bini!

I bambini vennero da me. E talvolta uno o due di loro parla­vano con un sussurro concitato, come se si scambiassero confi­denze sotto una tenda fatta con un lenzuolo. E dei piedi sulle scale. E poi, da dietro i muri, l’altissimo, amplificato rumore del­la notte elettrica.

Una sera aprii gli occhi e le catene erano scomparse.

Ero solo e la porta era aperta.

I miei abiti erano a brandelli, ma non m’importava. Mi alzai, scricchiolando, dolorante, e per la prima volta in forse due setti­mane mi posai la mano sull’occhio e lo sentii ben saldo al suo po­sto, anche se naturalmente avevo sempre visto attraverso di esso. E avevo smesso di pensarci da tempo.

Uscii dall’orfanotrofio, passando dal vecchio cortile. Per un attimo mi sembrò di vedere delle altalene in ferro, del tipo che veniva collocato nei vecchi parchi giochi per bambini. Vidi le strutture metalliche a forma di A alle estremità, e la sbarra oriz­zontale, e le altalene stesse, e i bambini che si dondolavano, ra­gazzine coi capelli al vento, e li sentii ridere. Alzai gli occhi, in­tontito, verso le finestre di vetro istoriato della cappella.

I bambini erano scomparsi. Il cortile era deserto. Il mio palaz­zo, adesso. Lei aveva tagliato tutti i ponti. Aveva raggiunto da tempo la sua grande, grande vittoria.

Camminai a lungo sulla St. Charles Avenue. Camminai sotto querce che conoscevo, su vecchi marciapiedi e distese di matto­ni, superando case vecchie e nuove, e attraversai Jackson Avenue raggiungendo la bizzarra mescolanza di taverne e insegne al neon, di edifici chiusi con assi e case fatiscenti e negozi eleganti, lo sgargiante territorio selvaggio che si estende fino al centro città.

Arrivai a un emporio vuoto che un tempo aveva venduto auto costose. Per cinquant’anni lì erano state messe in vendita mac­chine di lusso, ma adesso era solo un’enorme stanza vuota con le pareti di vetro. Vidi il mio riflesso nella vetrata. La mia vista so­prannaturale era di nuovo quella di un tempo, perfetta, in en­trambi gli occhi.

E vidi me stesso.

Voglio che mi vediate adesso. Voglio che mi guardiate mentre mi presento e giuro sulla veridicità di questo racconto, mentre giuro sulla veridicità di ogni sua parola, dal profondo del cuore.

Sono il vampiro Lestat. Questo è ciò che ho visto. Questo è ciò che ho sentito. Questo è ciò che so! Questo è tutto ciò che so.

Credete a me, alle mie parole, a ciò che ho detto e a ciò che è stato scritto.

Sono qui, ancora qui, l’eroe dei miei stessi sogni, e, vi prego, lasciatemi conservare un posto nei vostri.

Io sono il vampiro Lestat.

Lasciatemi passare dalla fiction alla leggenda, adesso.


FINE

9.43, 28 febbraio 1994.

Adieu, mon amour.

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