Arkadi Strugatzki - È difficile essere un dio

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È difficile essere un dio: краткое содержание, описание и аннотация

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La repressione impazza ad Arkanar, nel paesaggio si stagliano le forche.
Il Re ha messo al bando tutti gli intellettuali.
Gli studiosi inviati dal pianeta terra, ormai pacifico ed evoluto,  cercano di confondersi tra gli abitanti di Arkanar, studiano, osservano, trasmettono informazioni.
Intervenire? Creare forzatamente nuovi equilibri, nuove alleanze?
Funzionerebbe? Sarebbe giustificabile eticamente?
Com'è difficile essere un dio!

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Il Re, d’altro canto, si comportava come previsto. «Ribaldo!» gridò. «Ti torcerò il collo! Dov’è il dottore? Dov’è il dottore, ti dico!»

Reba fece un passo avanti, sorridendo.

«Sua Maestà, lei è davvero un monarca fortunato, perché ha sudditi tanto devoti da interferire a volte l’uno con l’altro nel desiderio di servirvi». Il Re lo fissava con occhi vuoti, senza capire. «Non vi nascondo che conoscevo bene le nobili intenzioni del nostro zelante Don Rumata, come del resto tutti nel vostro regno. Non vi nascondo che ho mandato i nostri soldati Grigi a incontrare il dottor Budach al solo scopo di proteggerlo dai pericoli di un lungo viaggio. Né intendo nascondere che non avevo fretta di portare Budach, l’irukano, davanti a Sua Maestà…»

«Come osa?»

«Sua Maestà, Don Rumata è giovane e tanto abile nella nobile arte del duello quanto inesperto di politica. Perciò è del tutto ignaro, naturalmente, di che cosa sia capace il Duca di Irukan nella sua malvagità e nel suo odio contro Sua Maestà. Ma lei e io, noi due, naturalmente lo sappiamo, vero?» Il Re fece un cenno di assenso. «E per questo mi è sembrato consigliabile condurre qualche ricerca, solo in via precauzionale. Non avrei voluto far precipitare le cose, ma se lei, mio Re (inchino profondo), e lei, Don Rumata (un cenno impercettibile), insistete tanto, farò venire il dottor Budach oggi stesso, dopo pranzo, così che possa iniziare la cura».

«Non siete poi così stupido, Don Reba» disse il Re dopo aver riflettuto brevemente sulle parole del ministro. «Ricerche… Buona idea… Male non fa. Maledetto irukano…» Improvvisamente urlò di dolore e si toccò di nuovo le ginocchia. «Oh, maledetta gamba! Bene, allora subito dopo il pranzo? Dovrò aspettare, allora…

Aspettare».

Appoggiandosi al maestro di cerimonia il Re andò lentamente nella sala del trono, passando davanti a Rumata, completamente disorientato. Don Reba, prima di fendere la folla dei cortigiani che si era fatta da parte per lasciarlo passare, gli sorrise affabilmente e gli chiese: «È vero, Don Rumata, che stanotte sarà lei di guardia nella camera da letto del Principe? Sono stato bene informato, vero?»

Rumata s’inchinò silenziosamente.

Rumata vagava senza meta negli interminabili corridoi e nei passaggi del palazzo.

Erano bui e umidi, e c’era puzza di ammoniaca e putrefazione. Passò davanti a saloni magnifici decorati con ricchi tappeti e arazzi, a sgabuzzini pieni di roba vecchia e mobili dalle dorature scrostate. Lì dentro era difficile incontrare qualcuno. Capitava che qualche cortigiano si perdesse e si aggirasse in quel labirinto, nelle ali retrostanti del palazzo, dove gli appartamenti reali si fondevano gradualmente con gli uffici del ministero della Sicurezza Interna. Era facile perdersi.

Tutti ricordavano di quando una pattuglia della guardia, durante una ronda, era stata terrorizzata dalle urla di un uomo che stendeva le mani graffiate attraverso la finestra sbarrata di una feritoia. «Salvatemi!» urlava. «Sono un gentiluomo della corte! Non so come fare a uscire, sono due giorni che non mangio! Tiratemi fuori di qui!» Per dieci giorni vi era stato un animato scambio di lettere tra il Tesoriere e il Ciambellano, e alla fine avevano deciso di schiodare le sbarre della finestra. Intanto, il povero gentiluomo era sopravvissuto grazie al pane e alla carne che gli passavano sulla punta di una lancia. Inoltre in quei passaggi si potevano incontrare altri pericoli.

Soldati ubriachi, truppe di palazzo che avevano il compito di difendere il Re, e Sturmovik ubriachi incaricati di proteggere il ministero, si scontravano in quegli stretti corridoi e ingaggiavano battaglie. Quando avevano finito di battersi si separavano e portavano via i feriti. E, infine, era lì che vagavano i fantasmi degli assassinati. Una folla considerevole di anime si era accumulata nel palazzo nel corso degli ultimi due secoli.

Da una nicchia del muro vide uscire uno Sturmovik di guardia. Il soldato Grigio alzò l’ascia e disse cupamente: «Vietato entrare».

«Non capisci niente, stupido!» disse Rumata, spingendolo da parte.

Mentre si allontanava sentiva lo Sturmovik che sfregava gli stivali sul pavimento e pestava i piedi, incapace di decidere come reagire all’insulto. Rumata si scoprì a pensare che quel tono offensivo e quei gesti indolenti erano diventati per lui quasi una seconda natura: non faceva più soltanto finta di essere un parassita di alto lignaggio, quell’atteggiamento era diventato come una specie di riflesso automatico.

Immaginò l’effetto di un tale comportamento sulla Terra e fu sopraffatto da un senso di nausea e di vergogna. «Perché lo faccio? Cosa è cambiato in me? Dove sono andati a finire il rispetto e la cordialità verso i miei simili che mi erano abituali fin da bambino? Che relazioni ho sviluppato con gli altri esseri umani, con quella meravigliosa creatura che si chiama uomo? Ormai devo essere irrecuperabile…» Un pensiero orribile gli attraversò la mente: «Io li odio e li disprezzo. Non sento pietà per loro… No, li odio e li disprezzo davvero. Anche se considero l’ottusità, la bestialità di quella montagna di carne, le circostanze sociali e la sua tremenda educazione… Posso sforzarmi il più possibile, ma ora vedo chiaramente che questo è il mio nemico, ostile a tutto quello che mi è caro, il nemico dei miei amici, il nemico di tutto quello che ho di più sacro. E non lo odio astrattamente, come rappresentante di qualcosa, ma proprio come individuo. Odio la sua bocca ripugnante e bavosa, la puzza del suo corpo sudicio, la sua fede cieca, la sua indifferenza a tutto quello che non è il bisogno sessuale o la birra. Eccolo là, l’adolescente a cui quel panzone di suo padre lisciava il pelo per insegnargli a diventare mercante di farina avariata e marmellata ammuffita.

Eccolo là che geme, lo stupido, che si sforza di ricordare i paragrafi giusti delle regole che gli hanno ficcato in testa e non sa se usare la sua accetta contro il nobile o fargli ciao con la manina. Qualunque cosa decida, nessuno lo saprà mai. Allontana da sé tutto quello che gli crea dei problemi, ritorna nella sua nicchia nel muro, si mette in bocca un pezzo di scorza da masticare, si lecca le labbra e rumina come una vacca soddisfatta, sbavando come un neonato. E niente altro gli interessa. Non userà il suo cervello per niente al mondo. Che Dio lo aiuti! Ma la nostra Aquila Illuminata, Don Reba, è migliore di lui? Certo, la sua psiche è più complessa, i suoi riflessi più imprevedibili, ma i suoi pensieri somigliano a quelli di quest’individuo puzzolente di ammoniaca e a questi labirinti pieni di delitti, ed è indescrivibilmente vile, un criminale orrendo, un ragno privo di scrupoli. Sono venuto su questo pianeta per amare questa gente, per assisterla nel suo sforzo di svilupparsi, per dar loro la possibilità di vedere la luce. No, ho fallito. Come storico sono un fallimento. E quando sono caduto in quest’abisso di cui parlava Don Kondor? Un dio può avere altri sentimenti oltre alla pietà?» Dietro di sé, nel corridoio, sentì un trepestio. Si voltò e afferrò tutte e due le spade.

Don Ripat correva verso di lui, brandendo la sua. «Don Rumata, Don Rumata»

diceva da lontano, cercando di non urlare.

Rumata lasciò andare l’elsa. Ora Don Ripat era abbastanza vicino; si guardò cautamente intorno e poi gli sussurrò all’orecchio: «È quasi un’ora che la sto cercando! Waga Koleso è nel palazzo! Sta parlando con Don Reba nella stanza lilla».

Rumata socchiuse gli occhi per un momento. Poi si fece di lato, dicendo sorpreso: «Non starà parlando del famoso capobanda? Credevo che fosse stato giustiziato tempo fa, o che esistesse solo nell’immaginazione popolare».

L’ufficiale si leccò le labbra screpolate.

«Esiste, esiste… È qui a palazzo… Pensavo che la cosa potesse interessarle».

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